Chiunque ha notizie e foto dei loro nonni o bisnonni che emigraono da Castelnuovo, e' pregato di contattarmi su facebook, cosi' si puo' dare una visione piu' completa delle persone, di dove vivevano e cosa facevano.
Quello che vedete e' quanto ho trovato in Italia, o ho raccolto in Brasile, Argetina, Francia, Germania ed Austria ma mancano ancora alcune famiglie che spero potreste aiutarmi a trovare.
In particolare le famiglie di Lira, Wolf, Andriollo, Longo, Danna e Brendolise che partirono a non ho trovato niente d'altro.




Quem tiver notícias e fotos de seus avós ou bisavós que emigraram de Castelnuovo, entre em contato comigo no Facebook, para que eu possa dar uma visão mais completa do povo, onde viveram e o que fizeram.
O que você vê é o que encontrei na Itália, ou o que coletei no Brasil, Argentina, França, Alemanha e Áustria, mas ainda há algumas famílias desaparecidas que espero que você possa me ajudar a encontrar.
Em particular as famílias de Lira, Wolf, Andriollo, Longo, Danna e Brendolise que partiram e não encontrei mais nada.




Cualquier persona que tenga noticias y fotos de sus abuelos o bisabuelos que emigraron de Castelnuovo, se ruega que se ponga en contacto conmigo en Facebook, para poder dar una visión más completa de las personas, donde vivieron y que hicieron.
Lo que ves es lo que encontré en Italia, o lo que recogí en Brasil, Argentina, Francia, Alemania y Austria, pero todavía faltan algunas familias que espero puedas ayudarme a encontrar.
En particular las familias de Lira, Wolf, Andriollo, Longo, Danna y Brendolise que se fueron y no encontré nada más.




Quiconque a des nouvelles et des photos de ses grands-parents ou arrière-grands-parents qui ont émigré de Castelnuovo, est prié de me contacter sur Facebook, afin que l'on puisse donner une vision plus complète des personnes, de l'endroit où elles ont vécu et de ce qu'elles ont fait.
Ce que vous voyez est ce que j'ai trouvé en Italie, ou ce que j'ai collecté au Brésil, en Argentine, en France, en Allemagne et en Autriche, mais il manque encore quelques familles que j'espère que vous pourrez m'aider à retrouver.
En particulier les familles de Lira, Wolf, Andriollo, Longo, Danna et Brendolise qui sont parties et je n'ai rien trouvé d'autre.




Anyone have news or photo of their grandtfather or great grandtfather that emigrated from Castelnuovo, is reqested to contact me on facebook or e-mai if he know, so he can give a vision complete of people, who were live and whot make.
Whoth you see is what I find in Italy or I find in Brasil, but miss some family and I hope you can help me.
They are the family of Lira, Wolf, Andriollo, Longo, Danna and Brendolise that go and I don't find no other.




I migranti



Tra il 1870 ed il 1913 vi fu una grande emigrazione in Europa ed in particolare dall'Impero Austro-Ungarico. In piu' le grandi piogge del 1882 in Valsugana spinsero altra gente all'emigrazione, pero' solo via terra, verso i paesi di confine dell'impero, attuale Serbia, dove per volonta' del governo viennese furono mandati. Attualmente esiste il paese di Stivor, dove ci sono dei discendenti di valsuganotti, ma non di Castelnuovo.





A Castelnuovo, esistono nel libro dell'anagrafe alcune scritte su cui si legge che erano emigrati. Cerchero' con questa pagina di recuperare le foto dei nostri antenati che decisero di abbandonare il loro paese per cercare una vita migliore all'estero.


I primi emigranti che trovo sul registro dei battesimi fu Melchioro, Gioani e sua sorella, tutti Coradello.
Non attraversarono l'oceano, ma andarono ai confini dell'impeoro Austro-Ungarico.
Personalmente non sapevo esistesse una regione con questo nome, "Banato", l'ho scoperto trovando il mio cognome riferito a tre persone emigrate li', probabilmente all'inizio del 1730, in un villaggio chiamato all'epoca Mercidorf.
Una lettura dei registri del paese mi ha confermato la presenza di Melchioro Coradello (19-7-1672) con due figli: Gioanni - Giovanni - (6-9-1707) e Catterina (21-8-1713).
I motivi dell'emigrazione in un luogo così lontano, si possono solo intuire ma non potremo mai conoscerli veramente, anche perche' non esiste traccia alcuna nei registri di Castelnuovo.
Purtroppo la loro fu una emigrazione finita tragicamente pochi anni dopo: per una epidemia di peste morirono nel giro di un mese. Prima la moglie di Giovanni, Camilla Bevilacqua originaria di Trento, il 13-8-1738, poi Melchioro il 22-10-1738 ed infine Giovanni stesso, il 31-10-1738, dopo soli 14 mesi di matrimonio con Camilla.
Della sorella Cattarina non ho trovato traccia e non posso dare alcuna notizia.





Una delle prime emigrazioni fu la "spedizione Tabacchi" dove un certo numero di persone (valle dell'Adige, Valsgana e Veneto) furono raccolte da Pietro Tabacchi e si ritrovarono in Brasile in una terra troppo calda, e senza niente.
Se le cose non funzionarono fu soprattutto per il fatto che a quella gente venne reso noto, già all’arrivo sul territorio brasiliano, che lo Stato brasiliano offriva condizioni di ottenimento della proprieta' della terra piu' vantaggiose: prezzi piu' bassi e metraggi piu' ampi. E non molto lontano dalle proprietà del Tabacchi stava la Colonia S. Leopoldina, stabilimento coloniale pubblico.

I castelnovati trovati furono:
Matteo Andriollo
Alessandro, Antonio e Pietro Wolf
Leonardo Lira (25-4-1845/?) di Giuseppe fu Giovani Lira e Cecilia Corrente
Giuseppe Lira
Giovanni Lira (31-5-1855/?) di Clemente di Giacomo e Elena di Giovanni Brendolise
Francesco Longo (24-2-1850/?) di G.Battista di G.Battista e Giacinta di Giovanni Denicolò
Giovanni Longo
Giuseppe Dana
Alessandro Bombasaro
I dati del battesimo ed i genitori sono queli del registro anagrafe, però non sono sicuro che si riferiscano alla persona giusta. Degli altri, non ho tovato alcun riferimento sul registro battesimi, per cui penso fossero persone provenienti da altri paesi che abitavano a Castelnuovo.

La maggior parte delle persone che emigrarono, andarono principalmente in Brasile ed in Argentina.
Sul registro parrocchiale dellle nascite si trova scrito nello spazio dedicato al battesimo di certe parsone, che parti' per l'America (genericamente), o per il Brasile.
Vediamone alcuni.



Dal sito: http://www.webcities.com.br/walewska/familias.htm , che ormai non esiste più, si potevano leggere i componenti della "spedizione Tabacchi".
Si possono trovare alcuni nomi di Castelnuovo.


FAMILIAS DA EXPEDIClAO TABACCHI
Lira Giacomo - Castelnuovo
Valandro Francesco - Castelnuovo

COLONOS TRENTINOS QUE FORAM PARA RIO NOVO
(RG) significa retirado para Rio Grande do Sul
(D) Retirado com destino desconhecido

Bombasaro Alexandro - Castelnuovo
Coradello Giacomo - Castelnuovo


Probabilmente, non avendo alcuna nota, non si sapeva nulla sulla loro destinazione.



A pag. 340 del registro anagrafe, si può leggere quanto scritto:

Lira Giacomo (2-1-1831) fu Giacomo (pag.332)
moglie Fortunata Agostini (20-12-1832) di Cristiano e Teresa Campestrin di Telve.

Figli:
Fortunata 23-4-1856
Samuele 5-2-1858/5-4-1874 Da lettera di certo Tonini si riferisce morto a 5-4 1874
Giuseppe 29-1-1860/21-3-1863
Luigi 4-2-1863
Felice 27-2-1865
Giovanna 2-9-1867
Margerita Fortunata 29-1-1870
Leonardo Giuseppe 16-1-1872


N.B. Questa famiglia parti' il giorno 27 Dicembre 1873 sotto la direzione di don Pedro Tabacchi di Trento, per l'impero del Brasile. Ai 3 Genaio 1874 salpavano da Genova. Cosi' Giacomo Lira con una lettera diretta ai sig. fratelli Maccani in data 2 Gennaio, veduta, letta da me. p. Clementa Ferrai.

N.B. Notazie venute dall'America in data degli ultimi di Maggio, ci annunziarono che purtroppo queste povere famiglie furono tradite. Fu sciolta la colonia Nuova-Trento che avevano fondato, e dalle mani del traditore Tabacchi passarono in quella del framassonico governo del Brasile. In una specie di rivolta che fecero coi loro padroni aguzzini parecchi furono incarcerati, fra i quai sono il suddetto Lira poiche' avanti di tante promesse non si vide mai fin ora (24 Luglio 1875) sue notizie.
Dio li aiuti!
p. Ferrai

Di queste persone non so piu' nulla.





Prima (e anche dopo) la 1° guerra mondiale anche altre famigli emigrarono, principalmente in Europa (Frencia, Germania, Austria e Belgio).

In Germania emigro' Lino Coradello, di Vincenzo e Giovanna Bombasaro, (8-4-1876 C.nuovo/8-1-1943 Borgo, Trento) con la moglie Luigia Denicolò (19-8-1880 C.nuovo/7-2-1962 Ebersbach/Wurtenberg - Germania).
Dei figli avuti, alcuni nacquero a C.nuovo, Tullo (10-8-1901/6-12-1970 Ebersbach/Wurtenberg - Germania), Oliva (21-12-1902/13-10-1973 Goppinghen - Germania), Aldo (10-11-1912/1985 Roma - Italia), Lino (1-11-1914/29-3-1978 Borgo Vals. - TN, Italia) e Walter (22-9-1919/1981 Hamburg, Germania).
Lino e Walter nacquero in Gerania.





















In Francia emigro' anche un altro Coradello, di Vincenzo e Giovanna Bombasaro, fratello di Lino, di nome Alfonso (23-3-1878/15-12-1915 in guerra) sposato con Amalia Ropelato (6-7-1880 Telve (TN), Austria/?).
Ebbero 3 figli:
Giovanna (14-6-1910 Castelnuovo/? Francia), sposata con Giseppe Mantegazza (14-11-1901 Daverio (VA) Italia/20-8-1960 Milano, Italia), nessun figlio.
Agostino (14-10-1911 Borgo V., TN/21-1-1994 Villers Semeuse, Charleville M., Francia), sposato con Genevieve ... (15-5-1921/?), nessun figlio
e Virginia (Gina) (5-6-1913 Borgo (TN), Austria/?) sposata con Serge Laffineau (?/?), un figlio, Pierre Laffineau.













Un terzo fratello, ando' a stare in val di Ledro, a Tiarno di Sopra.
Era Narciso Coradello (12-3-1867 C.nuovo/20-12-1948 Tiarno di Sopra), sposato il 7-2-1904 con Anna Merli (3-3-1872/?).
Ebbbe un figlio, Felice (17-11-1904/23-4-1995, nato e morto a Tiarno), sposato il 15-7-1935 con Fridolina Tiboni (12-4-1903/1-1-1978, nata e morta a Tiarno).
Ebbero 3 figli: Anna Maria, Ernestina (18-2-1940/18-4-2011) a Bruno.



















Emigrò in Austria anche Maria Denicolò (16-9-1883 C.nuvo/15-1-1948 Austria), di Samuele e Rachele Bombasaro, sposò Arnold Zerlaut (?/?) ed ebbe 3 figli.
Noldi, Teo e Mario.








Emigrò, ma in Italia, Romano Denicolò (1-4-1894 C.nuovo/28-11-1977 Desio, Milano), sposato il 23-11-1921 con Anna Santin (?/?) ed ebbero 3 figli.
Margherita, Remo e Bruna.







In Francia emigrarono 2 famiglie di Coradello, una dalle Olle e l'altra da C.nuovo.
Dalle Olle emigrò tutta la famigla di Antonio, di Antonio Melchiorre ed Anna Galvan, con la moglie Maria Faiscingher e 4 figli a S. Juery, Francia.
I figli sono Clementina, Primo, Ottilia, Egidio e Sabina.

Clementina (10-4-1902 Olle di Borgo Vals., Trento/29-6-1990 Albi, Francia), ha sposato Francesco Dalledonne (21-12-1901 Borgo Vals., Trento/31-7-1928 Albi, Francia) ed ebbero 2 figli.
Dario morto subito e Lydia.
- Lydia (19-6-1928 Albì, Francia/?), sposa Yean Schall (13-1-1929 Albì/13-9-1996 Tolosa, Francia) ed ebbero una figlia, Françoise Schall.


Primo (18-10-1903/6-10-1998), ha sposato Amalia Bonecher (27-1-1909 Borgo Vals, Trento/13-7-1978 S. Juery, Francia) ed ebbero 2 figli.
Charles e Antoninette.

- Charles (?/?), sposa Claudine Bories (?/?) ed hanno 2 figli.
-- Philipe e Pascal.
- Antoinette (?/?), sposata a Andre' Barrau (?/?) ed hanno 2 figli.
-- Alain e Helene.

Ottilia (27-1-1905/18-6-1992), spsa Virgilio Giovannini (?/?) ed hanno 4 figli.
Marie, Robert, Jeanine e Michel, tutti Giovannini.
- Marie (26-4-1932/?), sposata con Novis Jean (?/?) ebbero 4 figli.

- Robert mori' bambino.

- Jeanine (18-12-1939/?) sposa Michel Courbou (20-9-1936/?) ed hanno 2 figli.
-- Helen e Alexandre Courbou.

- Michel (23-12-1945/4-9-1996), non si sa altro


Egidio (10-1-1907/23-6-1986 Albi, Fracia), ha sposato Anna Muzzih (20-9-1908/3-6-1972) ed ebberro un figlio.
-- Marcelle Coradello.
Sabine morì a 5 mesi



































Da Castelnuovo emigrarono in Francia due fratelli, Disma e Remo Coradello (19-4-1930 C.nuovo/1992 Francia).
Da Disma (3-4-1923 C.nuovo/2006 Francia), di Serafino e Maria Demonte, sposato con Ginette Piet (1919/2006) nacquero 7 figli.
Mario, Ane-Marie, Chantal, Odilie, Pierre, Jean-Marie e Christine.

Mario (?/?), sposato con ignota (?/?) ebbero un figlio, Bruno.
Ane-Marie (?/?), sposata con igoto ebbero 2 figli, Claire e Helene.
Chantal (1950/?), sposata con Antoiine Tabesse (?/?) ebbero 4 figli, Marie Antoinette, Charles, Alexander, e Anne Christine.
Odilie (1950/?), non si sa.
Pierre (1955/?), sposato con ignota ebbero 2 figli, Vincent e Paul.
Jean Marie (1956/1989), sposato con Francine Henry (?/?) ebbero 3 figli, Oliva, Lisa e Charles-Henry.
Christine (1959/?), non si sa.

Da Remo (?/?) e Raymonde ... (?/?) nacquero: Renè e Reggo.












Emigrò in Austia anche Lina Denicolò (23-9-1880 C.nuovo) di Carlo e Angela Dalmaso con Battista Janes (6-11-1877 Castelfondo, Trento/1949 Dornbin, Austria) ed ebbro 2 figli.









In Belgio emigrò invece ANNA Maria Denicolò (5-5-1891 Castelnuovo/? Montreal, Canada) di Samuele e Rachele Bombasaro, sposata a Marcello Sordini (26-4-1895 Castelleone (CR)/?).
Ebero 5 figi:
Ugo (?, Cremona, Italia/8-7-2000 Nelson (BC) Canada) sposato e 4 figi.
Inus (?, Cremona, Italia/).
Anna (23-9-1928/9-7-2000 (B)), sposata a Sebastiano Torresan (?/?), ebbro 7 figli.
Maria Rosa (?/?)
Leonardo (?/Michelen (B)/?)
Di questi non si sa nulla.





ANNA Maria Denicolo' e Marcello Sordini
Inus Sordini con la moglie Rosa.




I 100 anni di Inus Sordini con Graziella Torrisi.



I 100 anni di Inus Sordini con la moglie Rosa.



Anna Denicolo'



Anna Denicolo' con Inus Sordini e due figli.




























In Austria emigrò anche Giuseppe Coradello (13-4-1846/15-1-1919) di Alessandro e Veronica Pasqualon, sposato a Fortunata Kolberner.
Ebbero una figlia, Katharina (19-1-1881 Altenstadt, Voralberg, Austria/23-7-1955 Zurigo, Svizzera).
Si sposò con Johan Brunner (3-3-1870 Wien, Baden (D)/28-6-1950 Diakonehaus St. Gallen (CH))
Ebbe 4 figli, tra cui Walter, che ebbe Hanspeter.













Ancora in Austria, emigrarono nel 1872, Leopold Coradello (25-10-1835 C.nuovo/17-12-1891 Kufstein, Austria) sposato il 19-2-1862 ad Anna Andriollo (1-6-1839 Castelnuovo/12-2-1891 Kufstein, Austria).
Dal matrimonio nacquero molti figli (12), ma sappiamo solo di tre, Anna, Giuseppina e Anton.
Anna Maria (19-2-1863 Castelnuovo/5-3-1890 Kufstein, Austria), ebbe una figlia, Anna Coradello (19-2-1863 Castelnuovo/5-3-1890 Kufstein, Austria).
Giusepina (1870, Bressanone (Bolzano), Austria/?), ebbe una figlia, nata ad Innsbruck, Austria.
Anton (23-3-1874 Sparchen, Kufstein (Austria)/27-3-1946 Woergl, (Austria) - reg batt Kufstein), sposato a Emilia Ferrari (1876 Mattarello, Trento, Austria/1954 Woergl, (Austria)).
Ebbero 4 figli:
Richard (1899 Woergl?, Austria/1965 Woergl, Austria). No so altro
Emil (1905/1944 morto nella 2° guerra mondiale). Sposato ad Ana Aichhazzer (1901/1961), ebbe Hermann e Ilse.
Hermann (28-3-1909 Woergl, Austria/ x-6-1993 Woergl, Austria. Sposato a Josefa Janner, ebbe Manfred.
Robert (1911/1981 Woergl, Austria) sposato con ..., ebbe Siglind, Inge ed Emil.


















































Cesare Coradello, di Vincenzo e Giovanna Bombasaro, fratello di Lino che emigrò in Germania, (1-3-1869 Castelnuovo/3-1-1042 San Joao da Boa Vista, S. Paolo, Brasile), sposato il 24-2-1900, probabilmente a Castelnuovo con Rachele Franzoi (18-1-1873 Castelnuovo/2-3-1942 San Paolo, Brasile).
Tutti i figli, meno l'ultima, nacquero a Castelnuovo.
Questa famiglia partì per il Brasile (verso) Novi Minas Gerais il 8-1-1911 da Trieste ai 20-1-1911 (pag. 151 reg. anagrafe). Figli:
Carlos (27-11-1900/7-6-1981 San Joao), sposato con Angelina Bregagnole (10-3-1910 Brasile/28-8-1990 San Joao), ebbero 3 figli, Ana, Adolpho e Luis.
- Ana (1933/2015), sposata a Antonio Trioni (1925/1987) ebbero una figlia, Beatriz.
- Adolpho (1936/2013), sposata con Iracilda Curcio (?/?) ebbe una figlia, Ana Clara.
-- Ana Clara (?/?), sposata con Carlos Ciacco (?/?) ha una figlia, Melissa Ciacco.
- Luis (?/?), sposato a Maria Aparecida Teixeiran (1950/1997) ebbero 3 figli, Cezar, Marcelo e Lucas.
Adolfo (16-9-1902/26-2-1984 San Joao), sposato con Leontina Resende Almeida (9-5-1904/? San Joao), ebbero 4 figli.
Leni (1930/?), Enio (1934/1989), Leri (1934/2004) e Anacia (1939/1952).
Liduina (19-8-1904/15-4-1985 San Paolo), sposata a Silvio Colbano (1911/2-1-1971), ebbero 6 figli.
Adolfo (1928/?), Eliza (1939/?), Aneza (?), Helio (1936/?), Maria (1938/?) e Alceu (1945/?).
Afra (16-8-1906/24-7-1989 S. Joao), sposata a Joao Benites (?/?) ebbero 2 figli.
Rachel e Miguel.
Anna e Antonio morirono quasi subito.
Maria (25-5-1917 S. Joao /x-4-2012 S. Joao) sposata a Gavino Quessa (15-5-1913/27-8-1994 S. Joao). Ebbeo 2 figli.
Osvaldo e Norival.










Coradello.

Certificato di matrimonio di Carlos Coradello.





Coradello.











Lapide nel cimitero di San Joao de Boa Vista.


Lapide nel cimitero di San Joao de Boa Vista.





Lapide nel cimitero di San Joao de Boa Vista.


Lapide nel cimitero di San Joao de Boa Vista.





Lapide nel cimitero di San Joao de Boa Vista.


Lapide nel cimitero di San Joao de Boa Vista.






Anna Coradello (4-9-1933/2015)
























.



Vechia casa dei Coradello.



Sitio della famiglia Coradello.



Il sitio "Sao Bento" di Cesare Coradello in cui coltivava il tabacco.
Ora e' di proprietà di un suo discendente, Roberto che vive lì, in una casa nuova, mentre il vecchio edificio e' abitato dalla figlia.





















































Quest'anno sono andato a trovare Luis Coradello nel suo sitio, alla periferia di San Joao da Boa Vista
Il sitio non e' piu' coltivato, vista l'eta' di Luis, che comunque tiene amcora una diecina di mucche.
Si vedono ancora diversi attrezzi agricoli sparsi nel campo.










La moglie di Caesar Teixeira Coradello con Cecilia Sodini.





La casa dove abita un figlio, poco distante dalla casa paterna.




.



Luis, Marcelo, Giulio tutti Coradello e la moglie Simone Domingos con il figlio Matheus.


Luis, Lucas e Giulio, tutti Coradello.




.


















Da sin.: Cecilia Sodini, George e Giulio, ambedue Coradello e Roberto Aranha.


Soraya con il marito Roberto Aranha, Cecilia Sodini e George Coradello.





Guiomar Alcarà, madre di Lucienne Coradello, Cecilia Sodini e Elene Coradello.


Cecilia Sodini con Elaine de Fatima Alcarà Coradello.





Giulio Coradelo, Guiomar Alcarà, madre di Lucienne e Selma ambedue Coradello.

Guiomar Alcarà, madre di Selma e Elena entrambe Coadello.





Roberto, Giulio Coradelo e Cesar Alcarà Coradello.




Ando' in Brasile anche Francesco Coradello, figlio di Giuseppe ed Orsola Valandro, (26-3-1863/circa 1922), sposa il 25-12-1895 Maria Stroppa (Telve?, Trento, Austria/22-11-1943 S.ta Rita do Passa Quatro, SP, Brsile) ed ebbero 9 figli.
Adelia ed Elisa, non si hanno notizie.

3) Luiz (1-7-1908/2-2-1931), sposa il 21-1936 Angela Carniato (26-11-1913/12-11-2004 nata e morta a S.ta Rita) ed ebbero 10 figli.
-- Antonio (?/?) sposa Yara da Silva (23-2-1939/23-12-1992 nata e morta a S. Paolo, Brasile) ed ebbero 3 figli.
---- Tania, Eliana e Adriana.

-- Aninha (?/?) sposa Milton Carneiro (13-7-1934/7-12-1990) ed ebbero 3 figli.
---- Milton, Mauren e Miriam.

-- Francisco (?//?) sposa Lucia Alves Pinto ed ebbero 2 figli.
---- Angelea e Rachel.

-- Josè (?/?) sposa Silvia Alves Pinto (?/?) ed ebbero 2 figli.
Josè e Andrè.

-- Redentor (?/?) sposa Josemar ed ebbero 3 figli.
----- Nilcimara, Elisangela e Thais.

-- Rosa (?/?) sposa Luis da Silva (?/2008), nessun figlio.

-- Alceu (?/?) sposa Regina Annguiar (?/?) ed ebbero un figlio.
---- Nino.

-- Rita (?/?) sposa Amadeo Perencin (?/?) ed ebbero un figlio.
---- Fernanda.

-- Sebastiao (?/?) sposa Ana Luiza (Anita) Catai (?/?) ed ebbero 2 figli.
---- Leandro e Luis.

-- Pedro (?/?) sposa Marcia Mendoça (?/?) ed ebbero 2 figli.
---- Pedro e Joao.

4) Joao (24-7-1915/24-11-1979, nato e morto a S.ta Rita, Brasile), sposa Italia Vizotto (18-4-1918/25-7-1994, nata e morta a S. Rita, Brasile) ed ebbero 9 figli.
-- Helena e Constantina non si hanno notizie, probabilmente nate e morte.

-- Maria de Lurdes (1939/1991), sposata a Luis Manarin (?/?) ed ebbero 4 figli.
---- Luis, Paolo, Ana, Francislene.

-- Sebastiao, nato e morto a S.ta Rita, SP. Sposa Ana Baessa (?/?), nessun figlio.

-- Alcino (?/?), sposa Vera Aledi (23-12-1943/17-1-1997), nessun figlio.

-- Francisco (?/?), sposa Antonia Moretto (?/?) ed ebbero 2 figli.
---- Marco e Adriano..

-- Candido (?/?), sposa Belinda Agida Demetrio (?/?), nessun figlio.

-- Salvador (?/?), sposò Ana Clara Gonçalves (?/?), nessun figlio.

-- Geneveva (?/?), sposa Alberto Nacca (?/?) ed ebbero una figlia.

---- Giovanna.

5) Josè (?/?), sposa Concheta Moreto (?/?) e ebbero 10 figli.
-- Amtonio (10-8-1924/?), sposa Antonia Mosca (?/?) ed ebero 8 figli.
---- Sergoi, Maria Lucia, Antonio Benedicto, Zenaide, Humberto, Pierina, Tania e Camilla.
-- Rita
-- Ilda
-- Lucia
-- Aparecida
-- Madalena
-- Benedicta
-- Carmela
---- Natalina
-- Teresinha
Di questi 9 fratelli, non ho alcuna notizia.

6) Antonio (?/?), sposa Assunta Bariconi (?/?) ed ebero 6 figli.
-- Anibal, Iree, Maria, Cilzua, Filomena e Urbana.

7) Helena (?/1993), sposata con ... Barbieri (?/?) ed ebbero un figlio.
---- Lucia Barbieri.


Un'altra famiglia di Coradello parti' al completo per il Brasile e si stabili' nello stato di Espirito Santo, ad Anchieta.
Fu la famiglia di Giacomo Coradello (13-8-1833/4-7-1903 Anchieta, ES) di Giovanni ed Anna Armelini, sposato con Mariolina Faiscingher (25-4-1841/10-8-1923 Anchieta, ES) ed ebero 4 figli.
Anna, Giovanni, Leonardo e Giuseppe. Leonardo e Giuseppe morirono quasi subito.

Anna (5-5-1863/?)
Giovanni (11-8-1866 Castelnuovo/19-9-1913 Itaperoa, Anchieta - ES) di Giacomo, il 2-6-1907 sposo' Artemisia Cominotti (1866/5-8-1939 Itaperoroma, Achieta, ES).
Ebbero 9 figli:
1) Jose' (9-3-1905 Segunte Territorio, Anchieta - ES/28-8-1982), sposato con Aurea Almeida (18-4-1910 Itapenua, ES/?) ed ebbero 6 figli.
Laura, Carmo, Bersonio, Jezuzezinha, Creuza, Jerusalem.
-- Laura (1931/?) sposò Antonio Nascimento (?/?) ed ebbro 7 figli
---- Lenilson, Maria de Fatima, Maria del Carmen, Oatanael, Benedicto, Lia, Antonio.
-- Carmo (22-10-19333/?), sposò Alaodiceia ... (?/?) ed ebbero 2 figli.
---- Anselmo e Adaiuto
-- Bersonio (18-4-1937/?), sposò Maria Vasconcelo ed ebbero 5 figli.
---- Aparecida, Josè, Rosilene, Julio e Adaileo.
-- Jezuzezinha (20-2-1938/?), sposò Augusto Libeiro (?/?) edebbero 7 figli.
---- Augusto, Maria Carmen, Aumir, Alcemir, Maria Auxiliadora, Maria da Penha e Fabiana.
-- Creuza (7-5-1942 Itaperoroaa, Anchiete,, ES/?) sposaJoanisco Fernandis (?/?) ed hano 5 figli.
---- Regina, Nice, Nazare, Yara, Soraya.
-- Jerusalem (?/?), sposò Anastacia Zucchi (?/?) ed ebbero una figlia, Alexandra.
2) Augusto (?/?), sposò Leticia Meneguell (?/?) ed ebbero 8 figli.
-- Nilza (?/15-2-2018), sposò Francisco Salvador (?/?) ed ebbero 3 figli.
---- Mara, Fabricio e Frederico.
-- Niuce (?/?), non si sa altro.
-- Nilson (?/?), sconosciuta ed ebbero 2 figli.
---- Rodrigo e Ulisse.
-- Neuza (?/?), non si sa altro.
-- Nelson (?/?), sposato a Sonia Ferrera (?/?) e figli sconossciuti.
-- Newton (16-5-1958/?), sposato a Tarsilia Lira (17-5-1961/) ed hanno 2 figli.
---- Vinicius e Letizia.
-- Noel (?/?), non si sa altro.
-- Maria Aparecida (?/?), sposata con Aceideo Marhesi (?/?) ed hanno 3 figli.
---- Josè Antonio, Cezario e Bianca.
3) Augusto (?/?), sposato con Leticia Meneguelli (?/?) ed ebbero 8 figli.
Nilza, Niuce, Nilson, Neuza, Nelson, Newton, Noel, Maria Aparecida.
4) Delphina (?/?)
5) Antonio (?/?), sposato, ebbe 5 figli.
-- Ozonio, Deloigi, Carmelita, Azeredo, Azevedo.
6) Moises (?/?), sposo' Ricardina Almeda (?/?) ed ebbero 3 figli.
-- Rosa, spo+sata con Joao Mato ed Hanno 3 figli, Ricardina, Eusea e Janete.
-- Jaine, non si sa.
-- Jonatan, sposato con Julia ... e non si sa.
7) Maria (19-6-1909/2-3-1998) sposo' Elia Napoleon (?/7-1-1957) ed ebbero 7 figli.
-- Ataige, Vaderlei, Delorne, Sirley, Maria, Elias e Vanilda.
8) Nelson (1-8-1911/31-8-2005), sposo' Ondina De Lima (19-3-1921/2015) ed ebbero 3 figli.
-- Celita, Jose', Alne.
9) Paulina (?/?) sposo' Jair Garcia (?/?) ed ebbero Miriam.






















My mother and father
Matrimonio di Ondina da Lima e Nelson Coradello.





Wedding of my cousin Carmo Coradello, son of Jose Coradello my father brother. My mother and my father are the God father and God mother of the wedding
Da Celita Coradello: Nozze di mio cugino Carmo Coradello, figlio di José Coradello (mio padre fratello). Ondina da Lima Coradello e José Coradello sono i testimoni di nozze.







Da sin.: Aline, Josè de Arimateia e Celita tutti Coradello.







The children are my sister Aline, my brother and I. In the front is Odete Soriano, my mother sister, then my mother and then Miriam Coradello Bertoldi my cousin
Da sin., dietro: Miriam Coradello Bertoldi mia cougina, Ondina da Lima Coradello e Odete Soriano, sorella di Ondina. I bambini: Celita, Jose de Arimateia e Aline, tutti Coradello.

















Nelson Coradello in the middle, his sister Paulina, her son in law.
Nel mezzo, Nelson Coradello con la sorella Paulina.




Da Celita: My mother name is Ondina. In this foto are my niece Mercedes Coradello Vilela. She is Aline’s daughter. And my mother Ondina de Lima Coradello.
Mercedes Coradello Vilela, figlia di Aline Coradello, con Ondina de Lima Coradello.












But in that foto, are the Aline daughter in law (in Blak and pink) then is Dayse Coradello, my brother‘daugther., then is Aline and Mercedes, Aline’s daughter
Da sin.: Nuora di Aline, Dayse Coradello, Aline e Mercedes sua figlia.



Bruno, Aline grandson. Aline, me (Celita) and Cecilia.
Bruno, nipote di Aline, Aline, Celita, tutti Coradello e Ceciia Sodini.






Shayenne, Mercedes’s daugther, that boy was a boy friend of Jerssika, Elizabeth’s daugther.
Shayenne, figlia di Mercedes, il suo ragazzo, figlia di Elizabeth e Giulio Coradello.

My brother, Jose de Arimateia Coradello, Cecilia, Celita ( me) and Dayse Coradello, my brother daugther
José de Arimateia Coradello, Cecilia Sodini moglie di Giulio, Celita e Dayse Coradello, figlia di José.



Alcune foto, prese da interet, di componenti di questa famiglia Coradello.
(Le foto sono di propieta' di Rodrigo Zamprogno Coradello)






Un'altra famiglia di Coradello parti' al completo per il Brasile e si stabili' nello stato di San Paolo, e fu Francesco Giovanni di Giusepe ed Orsola Vallandro (26-3-1863 C.nuovo/1929 c.a Uns - Brasile), sposato con Maria Stroppa (? Telve, Trento/22-11-1943 S.ta Rita do Passa Quatro, Brasile) ed ebbero 9 figli.
Adelia, Elisa, Luiz, Jao, Genoveffa, Ana, José, Antono e Helena.
Di Adelia, Elisa, Genoveffa ed Ana non si sa nulla.

5 - Luiz (1-7-1908/2-2-1983, nato e morto a S.ta Rita), sposato con Angela Carniato (26-11-1913/12-11-2004, nata e morta a S.ta Rita), ebbero 10 figli.
- Antonio (1937/?), sposato con Yara da Siova (1939/1992) ed ebbero 3 figlie.
-- Tania (?/?) sposata con incognito ed ebbero 4 figli.
--- Lucia, Isabele, Artur e Maiara.
-- Eliane (?/?) sposata con incognito ed ebbero 3 figli.
--- Talita, Guilhermo e Mariaa.
-- Mara (?/?) con Arjen Huese (?(?) ed ebbero una figlia, Livia.
- Aninha (?/?), sposata con Milton Carneiro (1934/1990) ed ebbero 3 figli.
-- Milton, Mauren e Miriam tutti Carniat
- Francisco (?/?), sposato a Lucia Alves (1970/19xx) ed ebbero 2 figlie, Angela e Rachel.
- José (?/?), sposato a Silvia Pinto (?/?), ed ebbero 2 figli, José e André.
- Redentor (?/?), sposato a Joseamar (?/?), ed ebbero 3 figli, Nicimara, Elisangela e Thais.
- Rosa, (?/?), sposata con Luis da Silva (?/?), e non hanno figli.
- Alceu (?/?), sposato a Regina Aguiar, ed ebbero un figlio, Cleber (Nino).
- Rita (?/?), sposato a Almto Perencin (?/?) ed ebbero una figlia, Fernand.
- Sebastiao (?/?), sposato ad Anita (?/?) ed ebbero 2 figli, Leandro e Luis.
- Pedro (?/?), sposato a Marcia Mendoça (?/?) ed ebbero 2 figli, Pedro e Joao.

6 - Joao (1915/1979), sposato a Italia Vizzotto (1918/1994) ed ebbero 9 figli.
Helena, Constantina, Maria de Lurdes, Sebastiao, Alcino, Francisco, Candido, Salvador e Geneveva.
- Di Helena e Constantina non si sa nulla.
- Maria de Lurdes, (1939/1991), sposata a Luis Manarin (?/?) ed ebbero 4 figli. Luis, Paoloo, Ana Maria e Francislene.
- Sebastiao (?/?), sposato a Ana Baessa (?/?) e non ebbero figli.
- Alcino (?/?), sposato a Vera Amissi (1943/1997) e non ebbero figli.
- Francisco (?/?), sposato ad Antonia Moretto (?/?) ed ebbero 2 figli, Marco ed Adriano.
- Candido (?/?), sposato a Belinda Agilda (?/?) e non ebbero figli.
- Salvador (?/?), sposato a Ana Clara Gonçalves (?/?) e non ebbero figli.
- Geneveva (?/?), sposata a Alberto Nacca (?/?) ed ebbero 1 figlia, Giovanna.

7 - José (?/?), sposato a Concheta Moreto (?/?) ed ebbero 10 figli.
Antonio, Rita, Ilda, Lucia, Aparecida, Madalena, Benedicta, Carmela, Natalina e Teresinha.
(?/?) ed ebbero 2 figli, Fabiana e iego.
- Antonio (?/?), sposato ad Antonia Mosca (?/?) ed ebbero 10 figli.
-- Sergio (?/?), sposato a Nair Cardoso (?/?) ed ebbero 2 figli, Fernando e Humberto.
-- Maria (?/?), sposata con Roberto da Silva (?/?) ed ebbero 2 figli, Marilù e Mateus.
-- Antonio (?/?), sposato a Luzia Pizzetta (?/?) ed ebbero 2 figli, Matheus e Marilù.
-- Zenaida (?/?), sposata con Marco Garcia(?/?), ed ebbero 2 figli, abiana e Diego.
-- Humberto (?/?), sposato a Neide da Silva (?/?) ed bbero 2 figle, Livia e Paula.
-- Pierina (?/?), sposata a auro Ferronato (?/?) ed ebbero 3 figli, Mauro, José e Tamina.
-- Tania (?/?), non si sa altro.
-- Camillo (?/?), sposato con Tania Aparecida (?/?) ed ebbero 4 figli, Jessica, Vinicius, Camilla e Victor.
-- Francisco (?/?), sposato con Liliana de Freitas (?/?) ed ebbero non si sa quanti figli.
-- Odair (?/?), sposato con Liliana ... (?/?) ed ebbero un figlio.

8 - Antonio (?/?), sposato con Assumpta Barioni (?/?) ed ebbero 6 figli.
Anibal, Irene, Maria, Clizua, Filomena e Urbana.
- Anibal (?/?), sposato a Maria Becase (?/?) ed ebbero 4 figli, Regina, Valeria, Rigen e Marcelo.
- Irene (?/?), sposata con Fiore Denarde (?/?) ed ebbero 4 figli, Antonio, Anamaria, Aorecilda e Helana.
- Maria (?/?), sposata con Foze Rocha (?/?) ed ebbero 2 figli, Luiz e Sonia.
- Clizua (?/?), sposata con Pedro Marchi (?/?) ed ebbero 3 figli, Foad, Leniz e Marlee.
- Filomena (?/?), sposata con Arachen Scarabel (?/?) e non si sa.
- Urbana (?/?), sposata con Raimundo Razao (?/?) ed non si sa.

9 - Helena (?/?), sposata con ... Barbiberi (?/?) ed ebbero una figlia, Lucia.




















Angela Carniato con il marito Luiz Coradello.
I bambini sono Pedro, Nelson e il cugino Sergio.
Il bambino in braccio è Milton Carneiro Jr.






Angela Carniato


Ecco i discendenti di una famiglia che emigrò:




Carnella Coradello, la madre.


Angela Faira





Gislaine Faira


Heitor figlio di Gislaine Faira





Due delle 3 figlie di Carmen, Silza e Gisla Faira.




















Una seconda famiglia, di cui conosco, per il momento, solo un componente, Nilson Coradello, abitanta a Igarasu do Tiete.



Nilson e Giulio, entrambi Coradello


Nilson con Lucilla





Il bar di Nilson








Infine, almeno 2 famiglie di Coradello esistono in Argentina: i discendenti di Vigilio e quelli di un altro Coradello che venne dal Brasile.
Vigilio Coradello, di Vincenzo e Giovanna Bombasaro, il quarto fratello (18-2-1871 C.nuovo/? Argentina), sposato il 24-10-1894 con Maria Gelmo (30-10-1866, Olle di Borgo Vals. (Trento). Da loro nacquero 7 figli:
Ruggero (9-8-1895 C.nuovo/?).
Teodora (8-10-1896 C.nuovo/23-12-1989 Argentina), sposata con Esteban Airoldi (31-6-1888 Arg./12-5-1956 Arg.), ed ebber 8 figli:
- Maria Petra (12-2-1912/22-2-1982), sposata con Florentino Torillino (16-8-1896/10-9-1971) ed ebbero 2 figli, Abel e Osvado.
- Maria Carmen (21-8-1913/9-7-1994), sposata con Francisco Pujol (24-3-1906/24-10-1993) ed ebbero 2 figli.
-- Marta Airoldi (24-12-1935/15-2-1990), sposata con Rodolfo Forenton (3-9-1928/?+) ed ebbero 1 figli.
--- Graciea Formenton (?/?), sposata a Horaco Gallo (?/?) ed ebbero 3 figi.
---- Mariano, Maria, Celeste. -- Adalberto Pujol (?/?), sposato con Julia Carnevale (?/?) ed ebbero 3 figli.
--- Laureano, Mauro e Martin.
- Felipa (3-6-1915/27-10-1982).
- Elisa (127-1917/?), sposata con Antnio Santoro (?/?).
- Rosa (13-11-1919/26-3-1-2000), sposata con Juan Acerbi (?/7-8-1986) ed ebbero un figlio.
- Juana (26-2-1922/?), spsata con Robert Le Meauthe (?/2-11-1973) ed ebbero 2 figli.
- Esteban (9-8-1924/?), sposato a Blanca Silveira (19-4-1924/?) ed ebbero 2 figli.
- Felipe (3-10-1926/?), sposato con Margarita Christensen (5-10-1926/?) ed ebbero 2 figli.
Ana Maria (24-11-1897 Argentina/29-8-1999 San Severino Marche, Macerata, Italia), sposata con Giovanni Rossi 31-3-1878 S. Severino M. Macerata, Italia/25-1-1948 S. Severino M. Macerata, Italia) ed ebbero 5 figli.
- Zenobia (2-12-1923 S. Severino M., Macerata/20-11-1998 S. Seveino M., Macerata), sposata con Pacifico Cartabini (?/?) ed ebbero 3 figli.
-- Giovanni, Orlando ed Adriana.
- Italo (26-9-1930/12-2-2000), sposato a Else Hansen (? Germania/?) con un figlio, Pierangela.
- Adolfo (31-3-1933 S. Seveino M., Macerata/?), sposato con Myriam De Filippi (1-4-1938 Valtellina, Sondrio/?) con un figlio, Giovanni.
- Maria (23-1-1941 S. Seveino M., Macerata/?).
- Otello (1-1-1946 S. Seveino M., Macerata/2004 S. Seveino M., Macerata) sposato con Natalina Meschini (?/?), 2 figli. Patrizia e Luca.
Carmen (3-8-1900/3-9-1984), sposata con Alejandro Baldini (?/?) ed ebbero 2 figlie, Maria e Mabel.
Francisco (12-4-1905/28-3-1944), sposata con Josefa Brunero (1-8-1905/15-12-1990) ed ebbero 2 figli, Edgardo e Olga.
Josefa (28-8-1907/14-5-1988), si sposata con Luca Navarro (25-8-1905/13-10-1966) ed ebbero 3 figli.
Maria (8-3-1930/?), Célca (8-3-1930/?), Carlos (25-12-1938/?).
Emilio (19-11-1909/26-4-1989), sposato con Maria Francisca Moraes (4-2-1915/27-7-1990) ed ebbero 2 figli.
- Gilberto
- Elba (17-2-1939/?) sposata con Francisco Pagano (15-3-1933/?) ed ebbero 4 figli.
-- Adriana, Gustavo, Graciela e Mariano.



























Un'altra famiglia emigrò in Brasile, a poi se ne andò in Argentina.
Si trattò di ... Coradello, il cui figlio è Enio Sebastiao.
Dai registri di battesimi e da quello dell'anagrafe non si sa nulla.
Moglie di Giuseppe (1843/?), di Leonardo e Marina Denicolò, sposa il 19-11-1868 Maria Furlan da Scurelle (1844/16-4-1879 a Scurelle, Trento).
Partirono per il Brasile nel Nov. o Dic. 1883.
Figli:
Giovanni Leonardo (31-8-1869/?)
Francesco Leonardo (23-3-1871/?)
Maria Marina (21-12-1872/?)
Leonardo Giuseppe (26-3-1875/?)
Romana Catterina (21-6-1878/)





Enio Sebastiao Coradello























My grandfather is ADOLPHO CORADELO, (46014152)
and my FATHER is ENIO SEBASTIÃO CORRADELLO (284)

Ci sono almeno altre 2 faiglie che emigrarono: Lira e Brendolis, che cercherò di rintracciare.
2 persone negli USA.
Più altre 2. Sono Fiore (? non sicuro se Denicolò) e Denicolò Giancarlo tutte e due a Torino.





Un mio recente viaggio in Argentina mi ha portato a conoscere una parte di questa famiglia. Vi sono i genitori e 5 fratelli, ognuno con famiglia ed una sorella del padre.
Ho potuto raccogliere alcune vecie immagini famigliari.
In più vi sono almeno altre due famiglie di Coradello di cui non si sa la provenienza, anche se molto probabilmente sono discendenti degli altri fratelli
Pare che venne in Argentina una persona con 3 o 5 figli, da cui derivano le famiglie attuali.
Cercherò, con l'aiuto di Jose Coradello, di trovare l'origine di questo gruppo.
Nel frattempo, ecco alcune foto di oggi e di ieri.

L'incontro al pranzo domenicale di quasi tutti i Coradello del gruppo.














Qui alcune foto di famiglia del padre.


















**


























































































i







Quest'anno (2025) ho cercato nei cimiteri i Coradello morti a Pergamino.
Qui esistono due cimiteri, quello comunale ed un cimitero privato.
In quello comunale ho trovato, per il momento, due nomi.
Diberto Paolo Coradello .../14-8-1975
Modesta Dezia Ree Coradello .../6-6-1971

Il sarcofago in cui ereno stati seppelliti i due corpi era stato derubato delle scritte e freggi con cui erano stati sepolti.
Quando tornero' devo trovare gli altri Coradllo li' sepolti.




Nel cimitero privato, il terzo piu' gramnde dell'Argrntina, ho trovato 10 nomi di persone li' sepolte.
Ecco i loro nomi:

Coradello Alberto Pablo 18-11-2002
Coradello Edgardo Virgilio 12-6-2012
Coradello Eliberto Francisco 22-5-2012
Coradello Modesta Delia Ree de 18-11-2002
Coradello Olga Beatriz 10-10-2023
Coradello Olga Edith 7-11-2021
Coradello Pierina Brunero de 14-7-1995
Coradello Roberto Mario 27-6-2021
Coradello Walter Alberto 6-5-1020
Coradello Zulem Noemi 11-8-2021

E qui di seguito le lapidi.





Pierina Brunnero de Coradello .../12-6-2012

Edgardo V Coradello .../22-9-2024

Olga Edith Coradello .../6-11-2021









Eliberto Francisco Coradello .../5-11-2011

Walter Eliberto Coradello .../6-5-2020

Alicia Cristina Coradello .../22-9-2024








Alla sera, cena !
















La spedizione Tabacchi

La spedizione Tabacchi: inizia la valaga Brasiliana


Uno dei primi trentini che emigrò in Brasile fu Pietro Tabacchi. Accadde, ciò lo possiamo supporre dalla documentazione di cui siamo entrati in possesso, nel 1851. La leggenda, coltivata probabilmente ad arte dallo stesso Tabacchi in Espirito Santo (allora provincia, oggi Stato brasiliano in cui risiedeva), dice che fosse scappato dal Trentino in seguito a persecuzioni politiche dovute al suo essere filo-italiano. Fatto sta, invece, che quando la notizia della sua morte giungerà in Italia, molti pretenderanno di prender parte alla divisione dei suoi beni, per coprire debiti che aveva lasciato in Trentino.
Ma era uomo capace Pietro Tabacchi di Trento, un uomo ostinato e di fiuto e in Brasile mise assieme una fortuna. In una terra, Espirito Santo (a nord di Rio de Janeiro e in territorio tropicale) che era scarsissimamente popolata e poco collegata ai mercati di sbocco brasiliani. Il pittore francese Francois Biard che nel 1858 visitò il Brasile e anche Espirito Santo, conobbe quel trentino e senza molta simpatia lo definì un «abbattitore di jacaranda» (enormi piante dal pregiatissimo legno che crescono in foresta tropicale): si trattava cioè di un commerciante di legname. Ma non solo: Tabacchi possedeva anche una casa di commercio a Santa Cruz e, con certezza, molte terre.
Ad un certo momento l'imprenditore si fece raggiungere dal fratello Carlo e cercò di mettere a frutto l'interesse che il governo brasiliano stava dimostrando verso l'immigrazione di genti europee. Si offrì di mettere in piedi uno stabilimento coloniale agricolo che avrebbe dato lavoro ad una cinquantina di famiglie, chiedendo di poter abbattere in contropartita 3.500 jacaranda (una vera fortuna in legname).
La sua proposta non venne accettata ma lui, nel 1870 tornò al contrattacco. Ormai la sua idea fìssa era che l'emigrazione (in quel caso l'immigrazione) fosse l'affare del secolo. E potesse fare gli interessi dell'imprenditore che la stimolava e gestiva e, perché no, anche delle famiglie contadine. Nel luglio del 1870 propose un contratto al governo brasiliano. Si impegnava a portare nella sua fazenda, dal Vecchio Continente, 30 famiglie tedesche o del Nord Europa, composte da gente «addestrata nei lavori di agricoltura in stato di perfetta salute e mai maggiore di 45 anni». Il contratto fu rivisto e sottoscritto e si giunse a stabilire in 70 il numero delle famiglie, che potevano anche essere però di altra nazionalità europea.
L'imprenditore avrebbe lucrato una somma notevole per ogni immigrato "importato" in Brasile, ben superiore ai costi di trasporto e mantenimento per i primi tempi, e di approntamento della ricezione di quei coloni. Il governo brasiliano, del resto, era pratiamente il primo governo sudamericano che aveva deciso di iniziare quella "marcia verso Ovest", e cioè la conquista della foresta tropicale, per popolare il paese metterne a frutto le immense, potenziali risorse. Nel 1875 il Brasile contava 10 milioni di abitanti e un territorio pari a quasi 29 volte l'Italia: 8 milioni e mezzo di chilometri quadrati, quasi tutti occupati da foresta mentre la gente abitava soprattutto lungo le migliala di chilometri di costa atlantica. Va detto, e ciò costituì la disgrazia del Tabacchi, che la somma pattuita gli sarebbe stata pagata per metà alla presa di possesso del loro appezzamento di terra da parte delle famiglie contadine e l'altra metà a distanza di un anno.
Ad ogni famiglia contadina era offerta la pro prietà di un lotto di terra di 12 ettari, che avrebbe potuto essere pagato a buon prezzo dopo cinque anni. Gli immigrati si impegnavano a lavorare nella fazenda di caffè del Tabacchi per un anno. Senza salario ma dietro la fornitura dei generi alimentari necessari alla sopravvivenza. Per altri tré anni l'imprenditore avrebbe potuto chiedere a quegli europei qualche giornata di lavoro, pagata, per la cura delle piante di caffè e durante il raccolto.
Ad un certo punto Pietro Tabacchi ebbe notizia dal suo Trentino che i flussi migratori si erano ampliati e che forse qualche famiglia disposta a recarsi in Brasile l'avrebbe trovata. Quei contadini, poi, disponevano di passaporto austriaco: non erano cioè italiani, nazionalità che al tempo non godeva delle simpatie del governo brasiliano (che di lì a qualche anno si sarebbe però riveduto). E' probabile, non ancora certo, che Pietro Tabacchi stesso abbia preso la strada del Trentino, selezionando le famiglie con tadine. Con lui c'era comunque Pietro Casagrande, un altro trentino (probabilmente di Valsugana) che in seguito avrebbe posseduto a sua volta grandi estensioni di terreno in Espirito Santo.
I trentini partirono solo il 3 gennaio del 1874. Al porto di Genova se ne recarono 388, accompagnati da Pietro Casagrande, la moglie, il medico di Borgo Valsugana Pio Limana e il sacerdote di Centa Domenico Martinelli. Salirono sulla Sofìa, un bastimento a vela che impiegò 45 giorni per giungere a Vitoria, la capitale di Espirito Santo, dove gettò le ancore il 17 febbraio. I coloni che sbarcarono erano in netta maggioranza di Valsugana: famiglie di Roncegno, Novaledo, Borgo, Casleinuovo, Levico, Tenna e Telve. Poi poche altre di Covelo, Vigolo Baselga, Lasino, Civezzano, Cavedine, Terlago (solo 3-4 nuclei erano veneri). Durante il viaggio morirono alcune persone, e tra loro dei bambini. Ma la cosa era piuttosto normale al tempo: i loro corpi venivano chiusi in un sacco e, dopo una breve cerimonia, gettati in mare. Viteria, secondo la descrizione di Pio Limana, era un piccolo borgo al tempo, e piuttosto povero all'apparenza: «Possiede un solo albergo, un caffè miserabile, tré chiese cattoliche, due piccoli ospitali, una guarnigione imperiale e il governatore della Provincia... Gli abitanti sono per la maggior parte negri, pochi gl'indiani i veri americani dei tempi di Colombo, e questi sono di color rame coi capelli nerissimi e lunghi, pochi i mulatti e rarissimi i bianchi; sono gente buonissima, si affratellano facilmente con i nostri, e pagavano loro da bere per sentirli cantare le canzoni patriottiche e gli inni nazionali italiani». I più vecchi tra i pronipoti di quei primi immigrati trentini ci ricorderanno che, a detta dei loro avi, fu grande la meraviglia nel vedere per la prima volta gente di pelle nera: «I vecchi raccontavano che credevano fossero dipinti con qualche crema o vernice. E che li toccavano per vedere se sulle mani rimanesse qualche cosa». Era l'America, la strana America dove tutto era diverso e dove valeva anche il detto, che circolò cent'anni nelle valli alpine, «tut pùgranì en Merica».
A Vitoria la compagnia, sotto una sferza di sole, dovette attendere otto giorni la nave a vapore che l'avrebbe trasferita a Santa Cruz, nelle cui vicinanze stava ìàfazenda del Tabacchi. «Il primo marzo arrivammo a Santa Cruz, piccolo paesetto in riva al mare e qui trovammo i cavalli e traversando immense foreste, dove il sole penetra a stento, e scavalcando monti ove non havvi traccia di sentieri, dopo otto ore di viaggio giungemmo all'abitazione del signor Tabacchi che trovasi sopra una collinetta, alla cui base scorre un fiume».
Ma le cose non erano andate esattamente come le stava raccontando per lettera il dottore borghesano. Alcune lettere pubblicate in seguito da La Voce Cattolica (che raccontavano i fatti in maniera comunque favorevole al Tabacchi e che scatenarono in seguito la polemica da parte della Wiener Zeitung, che accusò il giornale cattolico trentino di aver pubblicato lettere estorte ai contadini dallo stesso imprenditore) narreranno a loro volta meraviglie. Vi si parlava di «fertilità del suolo, mancanza di pericoli da animali feroci o dal morso velenoso, temperatura del clima che non troviamo molto dissimile da quella delle patrie abbandonate. La vista del terreno si presentò ferace di granoturco già maturo, e della ricca entrata del caffè che aprì i nostri cuori ad una lietissima speranza».

Dal libro "Storia della migrazione trentina" Di Renzo M. Grosselli.

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I “tirolesi-italiani” cerniera tra due mondi Trentamila tirolesi in Brasile.
Dal racconto di una “Tragica Epopea” alla scoperta di una emigrazione riuscita. Il gruppo Tabacchi e il rush italiano.
Di Renzo Maria Grosselli

I “tirolesi-italiani” cerniera tra due mondi
Sui “tirolesi italiani”, invece, ci è possibile dilungarci ben più, alla luce di un ventennio di studi, in Trentino, in Italia e in Brasile.
E il primo aspetto che vorremmo sottolineare è questo: i trentini, con la loro funzione storica di cerniera tra mondo tedesco continentale e mondo italiano peninsulare, furono i primi tra gli italiani (mentre i flussi immigratori tedeschi scemavano) a raggiungere il Brasile in quella che può essere definita una emigrazione organizzata e di massa. A voler essere didascalici, indicarono la via agli altri italiani, da subito quelli del Nord e Nord-Est. Si trattò della cosiddetta “Spedizione Tabacchi”.[8]
Si potrebbe osservare che non si trattò del primo gruppo organizzato di emigranti italiani che aveva raggiunto il Brasile nei decenni precedenti. Ricordiamo l’inserimento di un certo numero di liguri nei territori di foresta di S. Catarina, ai confini di quello che 40 anni dopo sarà il Distretto coloniale di Nova Trento.[9]
Si era nel 1836 e furono poco meno di 200 gli “italiani” che si stabilirono in quella colonia. Ma si trattò di un caso isolato, che non avrebbe avuto nessun seguito immediato. Si dovrà attendere l’emanazione della Legge delle Colonie, nel 1867, e la sottoscrizione da parte del governo centrale di Rio di un contratto con l’armatore Caetano Pinto (che garantirà il trasporto gratuito degli emigranti dall’Europa alle colonie brasiliane), nel 1874, per assistere all’inizio dell’immigrazione massiccia italiana in terra brasiliana. Ed in questo senso le quasi 400 persone portate in Espirito Santo dal trentino Pietro Tabacchi (in maggioranza della Valsugana trentina, poi di altre valli dell’allora Tirolo Italiano a cui si aggiungevano 3-4 famiglie venete) possono a tutti gli effetti essere considerate le anticipatrici di quel “rush immigratorio italiano” che in Brasile scemerà solo a partire dallo scoppio della prima guerra mondiale. Un flusso costituito nei decenni che vanno dal 1870 a fine secolo soprattutto da genti del Nord Est italiano (con aggiunte di piemontesi, lombardi ed emiliani), veneti i più numerosi, poi, tra la fine del secolo e il primo quindicennio del Novecento anche da percentuali significative di meridionali e di centro-italiani.[10]
Pietro Tabacchi era riparato in Brasile negli anni ‘50 a causa del fallimento delle sue imprese economiche a Trento. Là era riuscito a riassestare le sue finanze ed aveva creato un piccolo impero economico nella zona di Santa Cruz, Espirito Santo: la base delle sue attività era il commercio del legname, poi anche il commercio al minuto di altre merci. Infine, Pietro Tabacchi aveva acquistato delle terre e, a partire dalla seconda metà degli anni ’60 aveva pensato di metterle a coltura. Con una buona idea in testa e un presentimento che si rivelerà geniale. In primo luogo Tabacchi capì che l’area in cui viveva e che voleva mettere a coltura era adatta alla coltivazione del caffè (che già si stava sviluppando, nelle grandi e medie proprietà nel Sud di Espirito Santo). Ma il trentino intuì anche che stava volgendo al termine l’epoca della schiavitù negra in Brasile e che il paese avrebbe potuto pensare di sopperire alla scarsità di manodopera attraendo in loco quelle centinaia di migliaia, quei milioni di contadini europei che l’espandersi del sistema di produzione capitalistico stava espellendo dalla campagna. Tabacchi propose al governo imperiale vari tipi di contratto, legati sia alla sua attività di commerciante di legname che a quella di proprietario terriero: in tutti i casi alla base delle sue proposte stava l’idea di trasferire in Brasile un certo numero di famiglie contadine europee. Dopo alcuno dinieghi, finalmente il governo brasiliano accettò di mettersi al tavolo della trattativa con l’imprenditore trentino e al sorgere del nuovo anno, nel 1874, circa 400 contadini sbarcarono nel Porto di Vitoria per essere poi diretti verso le terre del Tabacchi a Santa Cruz.
La “Spedizione Tabacchi” costituì il secondo e definitivo fallimento professionale dell’imprenditore di Trento che dopo pochi mesi rendeva l’animo a Dio, amareggiato per la ribellione dei trentini che aveva portato in Brasile e per la sempre più probabile perdita dei capitali che aveva investito nell’impresa. Ma la sua idea[11][11] era certo un’idea vincente: Tabacchi aveva proposto a quei contadini, che era andato a prendersi in Trentino o Tirolo Italiano, il trasferimento in Brasile dove avrebbero lavorato per lui per qualche tempo per, alfine, diventare proprietari di un lotto di terra. Se le cose non funzionarono fu soprattutto per il fatto che a quella gente venne reso noto, già all’arrivo sul territorio brasiliano, che lo Stato brasiliano offriva condizioni di ottenimento della proprietà della terra più vantaggiose: prezzi più bassi e metraggi più ampi. E non molto lontano dalle proprietà del Tabacchi stava la Colonia S. Leopoldina, stabilimento coloniale pubblico. Ma certamente l’esperienza di Pietro Tabacchi in termini storiografici si pone come esperienza pioniera, che diede il via all’entrata massiccia di famiglie contadine italiane in Brasile, verso gli stabilimenti coloniali pubblici e privati. E quei primi trentini che, a contatto col mondo tedesco che da decenni stava spedendo nelle foreste brasiliane migliaia di contadini, si costituirono come trait d’union col mondo italiano.

Di Renzo Maria Grosselli


Note al testo:
[8]Del fatto si parla in R. M. Grosselli: Vincere, op. cit. e Colonie imperiali, op. cit. In lingua portoghese si veda R. M. Grosselli: A expedição Tabacchi e a Colônia Nova Trento, Vitória 1991
[9] Ci riferiamo, ad esempio, a quel gruppo di italiani, probabilmente liguri, che vennero inseriti nelle foreste catarinensi, ai confini di quello che qualche decennio dopo sarebbe diventato il Municipio di Nova Trento. Si era negli anni ’30. Vedi A. Franceschini: L’emigrazione italiana nell’America del Sud. Studi sull’espansione coloniale transatlantica, Roma 1908 p. 538; L. A. Boiteux: Primeira pagina da colonização italiana em S. Catarina, Florianopolis 1929
[10] Solo per limitarci alle entrate italiane nello Stato di S. Paolo, il Commissariato Generale dell’Emigrazione italiano segnalava che dal 1876 al 1925 vi erano entrati 366.000 veneti, 166.000 campani, 113.000 calabresi, 106.000 lombardi, 93.000 tra abruzzesi e molisani, 81.000 toscani, 60.000 emiliano-romagnoli e 53.000 lucani. A questi numeri vanno aggiunti anche i trentini, attorno alle 10.000 unità, nel 1925 a tutti gli effetti italiani. Vedi Commissariato Generale dell’Emigrazione: Annuario Statistico dell’Emigrazione Italiana dal 1876 al 1925, Roma 1926




Storia degli Italiani all'estero - L'emigrazione in America Latina
1874 INIZIO DELLA EMIGRAZIONE ITALIANA NELLO SPIRITO SANTO

Io che conosco la sua grandezza insondabile, posso affermare che l'America é una regione destinata da Dio ai flagellati d'Europa . Le sue foreste assomigliano ad un oceano verde. I suoi abbondandi fiumi chiamano le creature ad un lavoro promissorio di pace e di speranza; i suoi luminosi orizonti promettono di incoronare la libertá e la vita. Sono convinto che il nuovo continente rapresenta un dono di Dio agli uomini lavoratori e coragiosi. É la realizzazione della promessa ai cuori di buona volontá. Credo che i nostri discendenti ameranno i valori liggittimi della vita e spezzeranno la catena di rovine e distruzioni che minaccia sempre le propieta europee per le guerre affamatrici.
A quelli che sono stanchi di tollerare la criminosa influenza del demone insaziabile che domina i nostri principi, la Previdenza insegna la possibilitá di abitare tra i fiori di una natura diversa e libera, in cui la pace é garantita dalla profondida delle acque degli oceani. (Emmanuel)

Nello stato dello SPIRITO SANTO abitavano due fratelli Tabacchi; uno di essi fu incaricato dal governo Brasiliano di andare in Europa in cerca di gente disposta a venire a lavorare e popolare le nostre terre incolte.
In uno di questi viaggi, nel 1873, percorse l'intera alta Italia, di cui era originario, e da quelle contrade portò in Brasile una grande moltidudine di emigranti, tra questi il Reverendo padre Domenico Martinelli.
Sbarcarono nel porto di Santa Cruz a nord dello stato, dal valoroso veliero "SOFIA" alla fine del 1874 agli ordini del sig. Pietro Tabacchi. Dalla cittá di Santa Cruz molti di essi furono condotti alla fazenda chiamata "Santana" nelle prossimita' di "Ibaraçu"; gia propietá del Conte Déu e all'epoca appartenente alla famiglia Guaraná il cui sig. Pietro Tabacchi era fattore.
Dalla fazenda Santana, dopo pochi mesi per diverse ragioni, ma principalmente per malattie e pessime condizioni di vita in cui erano sottoposte, molte di queste famiglie si rivoltarono e fuggirono, andando alla ricerca di qualche altro posto in cui la loro sorte non fosse tanto ingrata.
Un coragioso gruppo di questi fuggitivi con le respettive famiglie dopo lungo e penoso camino, inoltrandosi nella macchia della valle del fiume Timbui, giunsero nel 1874 nel punto dove oggi é la bella e incantevole cittá di Santa Teresa. Componevano questo pugno di veri coragiosi bandeirantes i sigri. Paolo Casoti, Francesco Bassetti, Sebastiano Zamprogno, Bernardo Comper, Lazero Tonini, Annibale Lazero, Giuseppe Paoli, Daniele Palauno, e Abramo Zurlo. Questi e le loro famiglie furono i primi emigranti a calpestare la terra del nostro municipio.
Dopo qualche tempo che queste famiglie erano insediate qui, nel 1875, essendo ufficialmente iniziata la colonizzazione della terra con il nucleo coloniale "Antonio Prado e Bocaiuva" oggi municipio di Santa Teresa, giunsero altre numerose famiglie.
Fu cosi che il 9 Maggio 1875 dopo un lungo viaggio attraversando l'acqua dell'immenso Oceano Atlantico, giungeva nella baia di Guanabara la nave a vapore Francese "Rivadavia" portando nella sua capiente stiva una grande quantitá di emigranti, tutti Trentini. Dopo pochi giorni di permanenza a Rio de Janeiro con un altro vapore giunsero a Vitoria il 31 dello stesso mese. Qualche giorno dopo, riforniti di cibo e attrezzi di lavoro, inbarcati su delle canoe, cominciarono a risalire il fiume Santa Maria fino al luogo dove oggi sorge la cittá di Santa Leopoldina. Da qui si incamminarono salendo verso le terre di un certo Aurelio de Alverenga Rosa (Serra do Alverenga) dove cérano due baracche coperte di paglia appositamente preparate per accogliere gli emigranti di passaggio, da questo luogo continuarono dentro la selva dove ad indicargli il camino era un sentiero appena tracciato nella boscaglia. Sotto la direzione di un signore tedesco dal nome João Simão tutti gli uomini erano occupati per aprire la via che li avrebbe portati nella terra santaterenese. Nel frattempo lungo gli argini del fiune Timbui il vice direttore generale dalla colonizzazione, agrimensor Franz Von Lipes, procedeva alla misurazione e divisione dei lotti di terreno che sarebbero stati assegnati alle bracce straniere che stavano per arrivare.
Aperto il passaggio e giunti a destinazione fu lo stesso sig. Von Lipes che solennemente tramite sorteggio diede ad ogni famiglia la sua parte di terra, questo avvenne esattamente il giorno 26 di Giugno del 1875.
Tra le famiglie che in questa occasione ricevettero la terra si possono annoverare:
Virgilo Lambert, Antonio Lambert, Fedeli Martinelli, Andrea Martinelli, Felippo Bortolini, Eugenio Cuel, Lorenzo Dalprá, Paolo Paoli, Giovani Baptista Paoli, Pietro Margon, Giovani Angeli, Cirilo Belumat, David Casteluber, Mateo Dalprá, Giorgio Martinelli, Giorgio Gasperazzo, Massimo Gasperazzo, Domenico Gasperazzo, Domenico Coser, Antonio Coser, Giovani Broseghini, Alessandro Fellipi, Caleste Rosa, Pietro Costa, Giuseppe Dallappicola, Paolo Montibeller, Luigi Zotelle, Pietro Postai, Lazero Andreata, Francesco Rover, Tonaso Armelini, Giacomo Passamani, Pietro Rasselle, Giuseppe Margon, Paolo Zotele, Antonio Zanetti, Baldassari Zonta, Pietro Valandro, Luigi Tomazzeli, Pietro Lenzi, Adone Avancini, Giovani Moschen, Emilio Moschen, Enrico Paoli, Pietro Avancini, Giuseppe Bortolini, Daniele Mer, Glacinto Felipi, Domenico Montibeller, Albano Scalzer, Lorenzo Margon, Aonile Mosmago, Angelo Margon, Antonio Margon.

All'inizio dell'anno seguente, il 1876 un altro Vapore Francese, il "Fenelon" affondava l'ancora nel porto di Vitoria per sbarcare un nuovo gruppo di emigranti. Tra le altre famiglie che giunsero nella regione c'erano:
Domenico Broilo, Fortunato Broilo, Giuseppe Corteletti, Giovani Carlini, Domenico Fracalossi, Domenico Tamanini, Daniele Rizzi, Anselmo Frizzera Domenico Taffner, Tomazo Briddi, Antonio Perini e Antonio Roatti.
Alla fine del 1876 giungeva finalmente il "Culumbia " la prima nave Italiana al servizio degli emigranti destinati a Santa Taresa, partivano direttamente da Genova con destinazione Rio de Janeiro. Dall'antica capitale i passegeri venivano traghettati su altre imbarcazioni che li portavano poi a Vitoria.
Grande fu il numero di emigranti che giunsero con essa, tutti provenienti dal Veneto e dalla Lombardia. Appena sbarcati proseguivano subito verso il nostro municipio dove giunsero nel mese di novembre.
Componevano questo gruppo di emigranti numerose famiglie e tra queste quelle di:
Andrea Gasparini, Gionani Baptista Rossi, Augusto Bolognini, Ferdinando Giugni, Baptista Luppi Giovani Zanca, Luigi Pasolini, Emiliano Ferrari, Luigi Guaitolini, Sebastiano Toresani, Caetano Silingardi, Angelo Aleprandi, Gionani Lilli, Domenico Meloti, Giuseppe Rondelli, Luigi Pretti, Pietro Ferrari, Carlo Có, Antonio Có, Fedeli Garosi, Augusto Garosi, Giuseppe Benedusi, Angelo Armani, Biaggio Graziotti, Alessandro Bonatto, Luigi Bianchi, Giuseppe Simonassi, Michele Fritolle, Giuseppe Regatieri, Enrico Gerchi, Basilio Costa, Angelo Guerra, Giacomo Maestrini, Biaggio Ferrari, Giovanni Dalmaschio, Angelo Possati, Enrico Dalcolmune, Michele Gastaldi, Celeste Rosa, Filippo Vigano, Abramo Cagliari, Santo Storari, Ferdinando Zampieri, Luigi Bason, Vitorio Gasparini, Francesco Pitol, Luigi Luppi, Giacomo Ferrari.
In questa modo con l'arrivo di questa ultima spedizione, aveva inizio ufficialmente il popolamento e la colonizzazione del suolo di Santa Teresa.
Di conseguensa veniva posta nella foresta vergine di quella terra, piú tardi immortalata da Graça Aranha, la pietra iniziale di una nuova indistruttibile civilizzazione. Indistruttibile perche oltre ad essere costruita con sofferenza sacrificio e lacrime aveva come base fondamentale la pietra indistruttibile della Fede.
É anche vero che negli anni successivi molte altre famiglie di emigranti si aggiunsero ai primi, apportando un immenso ed innestimabile aiuto al completamento dell'opera grandiosa iniziata dai primi pionieri di questa grandiosa epopea cosi come la storia ci dice dobbiamo quello che noi siamo, e dove si localizza il monicipio, l'inizio della sua gloriosa esistenza.
Elvidio Zamprogno




Parteciparono alla spedizione, Giacomo Coradello, Antonio, Parte Giuseppe, Franzoi Angelo, Franzoi Francesco, Bombasaro Alessandro, per Rio Novo (ES).

Alcuni siti relativi all'argomento:

http://portale.lombardinelmondo.org/nazioni/brasile/articoli/storiaemigrazione/itiib
https://www.brasiltrentino.it/Pagine/Trentibitante alle Olle e l'altra a C.nuovo.ni-in-Brasile/Emigrazione-tirolese.php
http://www.memoriaemigrazioni.it/prt_lettere_singola.asp?idSez=216
https://www.skyscrapercity.com/showthread.php?t=1842663
http://www.mantovaninelmondo.com/storia/espiritosanto.htm
https://www.ilmondodeglischuetzen.it/IT/programmi%20vari/Circolo%20San%20Paolo/trentamila%20tirolesi%20in%20brasile.pdf




memoria

I COLONIZZATORI DELLA VALSUGANA

1874-1914, la corsa verso la terra

http://www.aquinet.it/a18memoria1.html

Chi girasse per il Brasile, nei territori degli Stati di Espirito Santo e Santa Catarina, si meraviglierebbe per la quantità di nomi di località che ricordano il Trentino, ma più precisamente la Valsugana: a Nova Trento (Santa Catarina) si trova una località denominata Valsugana, mentre a Santa Teresa (Espirito Santo) le Valsugana sono due: Valsugana Velha e Valsugana Nova. Sempre a Nova Trento, esiste una località che alcuni vecchi denominano ancora Ronzenari (da Roncegno), anche se oggi è chiamata più comunemente Tirol. A poco più di 100 chilometri da Nova Trento, nel municipio a maggioranza trentino-brasiliana di Rio dos Cedros, si trova la vallata denominata Samonati (da Samone). Infine, nel Sud di Espirito Santo, nei territori della ex colonia di Rio Novo, negli anni ’70 del secolo scorso una linea coloniale era stata denominata Nuova Levico.

Potrebbe anche essere vero che quello italiano non è stato un popolo colonizzatore di terre vergini, anche se la cosa non ci trova del tutto d’accordo. Ma è anche certamente vero che alcune zone italiane diedero numeri cospicui di coloni soprattutto all’America Meridionale: il Veneto, la Lombardia, il Trentino ed il Friuli. E in Trentino, la Valsugana. Questa valle, popolosa ed agricola fu, all’interno della regione denominata Tirolo Meridionale o Tirolo Italiano facente parte dell’impero austro-ungarico sino al termine della prima guerra mondiale, la prima a liberare centinaia di contadini che si riversarono in Brasile ed Argentina per colonizzare terre di foresta tropicale. Probabilmente fu anche la valle trentina da cui partì complessivamente il più alto numero di emigranti che presero possesso di un pezzo di terra non solo in America Latina, ma anche in Bosnia, tra il 1874 ed il 1914, ed in altre zone dove governi o privati distribuivano delle terre da mettere a coltura. Le ragioni di questo fenomeno sono certamente complesse ed in questa occasione non vogliamo soffermarvici1.

A partire dalla metà dell’Ottocento il Trentino, ma anche altre limitrofe regioni dell’Italia Settentrionale, visse una crisi di trasformazione, peraltro piuttosto dilatata nel tempo, che portò ad acuirsi l’emorragia sociale costituita dall’emigrazione. Come in tutte le terre alpine anche in Trentino non si trattava di un fenomeno nuovo: a partire almeno dal XIV-XV secolo dalle alte valli avevano iniziato a spostarsi, stagionalmente, flussi di emigrazione di mestiere: venditori di stampe, ramai, segantini, poi seggiolai, arrotini, salumieri, venditori ambulanti di mercerie ed altro ancora.

Si trattava di lavoratori che partivano dalle alte valli, quei territori in cui la lunga stagione invernale e la scarsità di terreni agricoli costringevano gran parte degli uomini a trovare una occupazione ed un reddito altrove durante i mesi morti per l’agricoltura.

Ad essi, sempre però con movimento stagionale, si erano aggiunte a partire soprattutto dalla fine del XVIII secolo schiere di contadini provenienti dalle medie e basse valli. Non portavano più nelle pianure e nelle città una loro professionalità specifica ma si occupavano in qualità di braccianti, soprattutto braccianti agricoli: per legare le viti, spaccare la legna, raccogliere le foglie di gelso. Anche in Valsugana i due fenomeni erano apparsi. Per quanto riguarda l’emigrazione stagionale di mestiere ricordiamo che alcuni villaggi della zona meridionale della valle avevano iniziato a mandare per l’Europa i venditori di stampe almeno a partire dal Settecento. Si trattava di una occupazione stagionale che i valsuganotti appresero dai vicini abitanti dell’Altopiano di Tesino che già dal Cinquecento si erano messi in cammino (prima con pietre focaie per archibugio, poi con stampe e libri)2.

A partire dalla metà dell’Ottocento iniziarono ad avvertirsi, in Trentino e Valsugana, i primi effetti di quella crisi epocale che, in definitiva, era un portato dello sviluppo capitalistico che aveva trasformato l’Europa centro-settentrionale. Si aprì l’epoca dell’aisemponerismo (da Eisenbahn Arbeiter, lavoratori delle ferrovie) che portò migliaia di trentini ogni anno in tutta Europa, poi anche in gran parte del mondo, sulla scia di quella grande ondata di lavori pubblici che si protrasse sino alla prima guerra mondiale. Ma con gli anni ’70 la crisi trentina si acuì: vi contribuirono il distacco di Lombardia e Veneto (che costituivano i mercati naturali del Trentino) dall’Austria, la drammatica crisi nella produzione di bachi da seta e poi anche dei setifici, le devastanti alluvioni del 1882 e 1885 ed altro ancora. Concomitantemente, alcuni paesi d’oltreoceano iniziarono a mettere in cantiere delle legislazioni che miravano ad attirare schiere di contadini europei che avrebbero dovuto popolare vaste aree disabitate. Tra questi soprattutto il Brasile e l’Argentina (ma anche Messico, Venezuela, Guatemala e, meno, Australia e Sud Africa). Si aprivano così le porte di quella che per l’Italia (ma anche per il Trentino che al tempo faceva parte dell’impero austriaco) venne denominata la grande emigrazione. Partirono a centinaia di migliaia verso l’America Meridionale, ma anche verso gli Usa dove, però, pochi poterono avere terra e continuare ad essere agricoltori, e la maggioranza fu costretta a lavorare nelle miniere e nelle fabbriche, e verso l’Europa dove trovarono lavoro pure in miniere e fabbriche. Il flusso migratorio trentino si era fatto drammaticamente cospicuo ed anche complesso. Ad esempio, si calcolava che dal 1890 al 1914 uscissero annualmente dal Trentino dai 20.000 ai 40.000 emigranti. Tra di loro si contavano i tradizionali emigrati stagionali provenienti dalle alte valli, gli emigrati temporanei (coloro che all’estero ci stavano sino a quando c’era lavoro o che, comunque, vi rimanevano un tempo per poi rientrare in patria) e gli emigrati che invece cercavano di mettere radici lontano da casa. Tra coloro che sceglievano di trasferirsi oltreoceano, accettando le offerte di appezzamenti di terra a basso prezzo dei governi o degli imprenditori agricoli locali, la stragrande maggioranza era costituita da famiglie coloniche della basse valli. Le nostre indagini sull’emigrazione trentina verso il Brasile hanno confermato che le due zone che più inviarono contadini diretti verso gli esperimenti di colonizzazione pubblica furono la Valsugana ed il territorio che si estende tra le città di Trento e Rovereto. Perché? Certamente non era indifferente a ciò il boom demografico che aveva interessato più le basse che le alte valli a partire almeno dalla fine del Settecento. Come pure, una certa rilevanza aveva avuto sul fenomeno la malattia del baco da seta, a partire da metà Ottocento, e la successiva crisi dei setifici che colpirono drammaticamente proprio la Valsugana e la Valle dell’Adige in cui queste produzioni erano più sviluppate (sopra una certa altimetria il gelso, alimento dei bachi, non cresce). Peraltro, la crescente pressione fiscale sulla proprietà fondiaria colpì dapprima in modo devastante la piccola proprietà delle basse valli. Gli abitanti delle basse valli, infatti, tradizionalmente erano meno abituati alla mobilità stagionale che, invece, per qualche decennio permise alle alte valli di continuare a far fronte alle uscite finanziarie che scaturivano dall’imposizione fiscale (anche se a partire dagli anni ’90, mentre le bassi valli iniziarono a diminuire di molto la loro emorragia emigratoria, le alte valli inizieranno a conoscere il fenomeno dello spopolamento, che sino ad oggi non si è ancora del tutto arrestato). Va peraltro notato che era nelle basse valli che si trovavano i migliori contadini trentini: spesso piccoli proprietari, ma anche a servizio della grande proprietà. Erano costoro che disponevano delle terre migliori, più facilmente coltivabili e più redditizie, anche se la piccola proprietà in Trentino aveva conosciuto ormai un processo di atomizzazione che l’aveva ridotta a estensioni davvero misere3.

I valsuganotti al seguito di Pietro Tabacchi

Il primo trasferimento di massa di contadini italiani verso le terre americane si ebbe nel 1874 e partì proprio dal Trentino4. Si trattava della cosiddetta Spedizione Tabacchi5.

Pietro Tabacchi era un trentino che agli inizi degli anni ’50 si era rifugiato in Espirito Santo, a Nord di Rio de Janeiro, dove nel giro di qualche anno aveva messo in piedi una fiorente attività commerciale, basata soprattutto sull’esportazione di legname, a cui aveva affiancato l’acquisto di ingenti estensioni di terreno. Verso gli anni ’70, approfittando di una legislazione nazionale che per favorire l’immigrazione europea forniva finanziamenti governativi a chi vi si applicasse, aveva presentato dei progetti di immigrazione alle autorità. Alfine, nel 1873 Pietro Tabacchi stipulò un contratto con il governo di Rio che prevedeva l’inoltro di un certo numero di contadini europei nelle sue terre, ottenendo il finanziamento di una certa somma da parte del ministero dell’agricoltura. L’imprenditore avrebbe inserito questi lavoratori in una sua fazenda in cui avrebbero coltivato il caffè. Lo stesso Tabacchi si diresse in Trentino dove avvicinò gli emigranti. Con l’aiuto del suo conterraneo Pietro Casagrande riuscì alfine a mettere insieme un gruppo cospicuo di famiglie, formato da quasi 400 contadini che partirono alla volta di Vitoria il 3 gennaio del 1874. Altri avrebbero dovuto seguirli in spedizioni successive nei mesi ed anni a venire. Per la precisione, si trattava di 388 contadini, accompagnati dal Casagrande e dalla sua consorte, dal medico Pio Limana e dal sacerdote Domenico Martinelli. Il contratto che i capifamiglia sottoscrissero con Tabacchi prevedeva che ogni famiglia avrebbe ricevuto 12 ettari di terra, pagabili in 5 anni ad un prezzo favorevole. Anche il trasporto dai villaggi trentini e sino a destinazione era a carico dell’imprenditore e così il vitto e l’alloggio per i primi 6 mesi. In contropartita gli agricoltori si impegnavano a lavorare per Tabacchi per un anno, col compenso del solo vitto, e per altri tre anni a richiesta dell’imprenditore e con compenso in danaro preventivamente pattuito. In pratica, Pietro Tabacchi avrebbe fatto disboscare un’ampia zona di foresta tropicale ai contadini, vi avrebbe fatto piantare il caffè che avrebbe fatto lavorare per i primi anni dagli stessi. La cosa non andò a buon termine. La zona di colonizzazione, tanto per iniziare, era situata presso il 20esimo parallelo, a qualche chilometro dalla città portuale di Santa Cruz. Si trattava cioè di zona pienamente tropicale ed ubicata al livello del mare. Non offriva certo le migliori condizioni climatiche per le famiglie europee, anche se nei decenni successivi altre migliaia di agricoltori del Nord Italia vi si stabiliranno, riuscendo alfine ad acclimatarvisi. Ma non fu questo il problema principale, anche se il gruppo di trentini fu colpito già all’arrivo in Brasile da una non meglio identificata epidemia che condusse a morte molte persone. Si dà il caso che nel 1867 il governo di Rio de Janeiro avesse promulgato la Legge delle colonie, cioè il decreto 3.784 del 19 gennaio 1867. La norma garantiva agli agricoltori europei che si trasferivano in Brasile un trattamento migliore di quello che Pietro Tabacchi concesse agli agricoltori trentini. Solo per fare un esempio, gli ettari di terra concessi ad ogni famiglia erano da 15 ai 60, ed ogni figlio maschio maggiore di 18 anni poteva a sua volta ricevere un lotto. E i contadini non erano tenuti a lavorare a favore di un signore, né per un anno, né per un giorno.

Proprio a pochi chilometri dalla fazenda di Pietro Tabacchi c’era la colonia di S. Leopoldina. Soprattutto da ciò vennero le disgrazie dell’imprenditore trentino. I suoi coloni dapprima si ribellarono, poi qualcuno chiese la protezione del governo, altri se ne andarono alla chetichella. Dopo alcuni mesi di disavventure continue Pietro Tabacchi morì di crepacuore. Su quella impresa economica aveva giocato molto e stava rischiando di veder andare in fumo decenni di lavoro. Infatti, il suo contratto col governo prevedeva che una prima parte di contributo finanziario gli sarebbe stata pagata solo dopo l’effettivo stabilimento dei coloni sulle sue terre, l’altra dopo qualche tempo. Ma praticamente nessuno di quei quasi 400 contadini si stabilì in fazenda. E Tabacchi aveva già speso fior di quattrini per ingaggiare i contadini e condurli in Espirito Santo. Molti, alfine, si trasferirono nella colonia S. Leopoldina. Altri nella colonia di Rio Novo, sempre in Espirito Santo. Il rimanente gruppo di famiglie prese terra in colonie pubbliche del Paranã e di Rio Grande do Sul, mentre qualche donna e qualche bambino furono aiutati dai consolati austriaci a rientrare in patria.

Sui 78 capifamiglia che si trasferirono in Brasile al seguito di Pietro Tabacchi, ben 46 erano di certa origine valsuganotta (la maggior parte degli altri venivano da altre zone trentine e solo pochissime famiglie erano di origine veneta).Quando l’anno successivo, il 1875, scoppiò in Trentino e nell’Italia del Nord-Est la "febbre americana", ancora una volta la Valsugana vide partire flussi cospicui di contadini. Ad esempio, quelle 700 persone che nel 1875 costituirono il gruppo più corposo di emigranti che in un sol colpo siano partiti per l’America dal Trentino sino alla prima guerra mondiale, erano proprio originarie della Valsugana6.

Valsuganotti in Brasile e Argentina tra il 1874 e il 1888

Un prete di campagna, Lorenzo Guetti, futuro padre del movimento cooperativo trentino, nel 1888 diede alle stampe una sua statistica relativa all’emigrazione trentina verso l’America dal 1870 al 18887.

I dati ottenuti e resi noti dal Guetti erano dovuti in gran parte alle informazioni ottenute dai colleghi sacerdoti di tutto il Trentino. Pochi erano i casi in cui il prete si era invece rivolto alle autorità civili. Ma ci furono alcuni paesi del Trentino da cui Lorenzo Guetti non ricevette informazioni, altri da cui le ricevette in modo sommario e probabilmente errate. Purtuttavia si trattava di una indagine statistica sufficientemente attendibile e, comunque, l’unica di quello spessore che sia disponibile per quegli anni (ma anche per i successivi e sino almeno al 1914). Ebbene, secondo i dati forniti dal Guetti dal 1870 al 1888 erano partiti dal Trentino alla volta dell’America circa 24.000 cittadini: 5.000 verso il Nord America e 19.000 verso il Sud America.

Su una popolazione che, secondo i cataloghi del clero, era di circa 404.000 persone nel 1880 ciò costituiva quasi il 6% degli abitanti del Trentino. In realtà quel numero considerava la popolazione presente in Trentino e quindi anche tutti gli stranieri che vi erano residenti in quel momento (militari austro-ungarici innanzitutto, poi amministratori imperiali vari, ed altro ancora).

Al Censimento imperiale del 1880, infatti, la popolazione trentina era stata calcolata in 347.000 persone. Quindi verso l’America era partito in meno di vent’anni un contingente di persone equivalente al 7% di coloro che vi risiedevano nel 1880.

La Valsugana fu una delle valli che più diede emigrati all’America, e soprattutto all’America del Sud. Verso quest’ultima destinazione partirono, secondo il Guetti, 1.260 persone dal decanato di Pergine, 1.619 da quello di Levico, 1.347 dal decanato di Borgo e 491 da quello di Strigno. Includendo in questo calcolo i dati riportati dal Guetti nel suo supplemento (che riguardava i primi mesi del 1888) si giunge ad un totale di quasi 5.000 persone.

La scarsità di partenze dal decanato di Strigno (che comprendeva l’Altopiano di Tesino, piuttosto popoloso con i suoi 7.000 abitanti sul totale dei 16.000 segnalati dai cataloghi del clero per l’intera valle) conferma come le alte valli all’epoca fossero aliene da emigrazioni di massa e definitive.

Il Tesino, compreso il villaggio di Bieno, era ancora massicciamente occupato nella vendita ambulante tanto che solo una sessantina di persone furono segnalate in partenza per l’America. E tra loro, con tutta probabilità, la maggioranza era costituita da venditori di stampe che all’epoca batterono tutta l’America Latina, facendo ritorno in patria dopo un certo periodo di permanenza all’estero. In secondo luogo nella zona di Strigno il setificio, pur conoscendo una crisi di vasta portata, dava ancora lavoro e reddito a migliaia di famiglie. In tutti i casi, se ci atteniamo ai numeri della popolazione segnalati da Guetti, dalla Valsugana era partito il 7,69% degli abitanti verso l’America Meridionale, contro un 4,57% relativo a tutto il Trentino.

Se invece consideriamo la popolazione verificata dal censimento del 1880, notiamo che fu l’8,92% dei valsuganotti che lasciò la patria per le lande sudamericane (più del 10% se teniamo in conto anche le partenze verso il Nord America, contro solo il 6,87% dall’intero Trentino).8

Tenendo per buoni i dati della popolazione indicati dal Guetti, annotiamo che dal Perginese partì l’8,9% della popolazione verso l’America ed il 91% di quel flusso si diresse verso l’America del Sud.

Nel decanato di Levico la percentuale saliva al 12% (l’82% del flusso verso l’America del Sud), scendeva all’8,6% dal decanato di Borgo (l’89% del flusso verso l’America Meridionale) ed ammontò a solo il 3% dal decanato di Strigno. Tenendo in conto anche i numeri forniti da Guetti nel supplemento, segnaliamo i paesi con il massimo numero di emigrati verso l’America Meridionale: Levico 508, Pergine 410, Novaledo 361, Borgo 302, Barco 293, Caldonazzo 244, Torcegno 174. Ma forse, per far rilevare l’ampiezza del fenomeno sociale, vale la pena indicare i paesi che videro partire la maggior percentuale di popolazione verso l’intera America (sempre basandoci sui cataloghi del clero, e quindi con una popolazione superstimata): Novaledo 31,95% (tutti al Sud meno 1), Barco 31,54% (tutti al Sud meno 1), Vignola 25,71% (tutti al Sud), Serso 20,78% (tutti al Sud), Roncogno 16,1% (tutti al Sud), Mala 14,8% e Roveda 13,5%. Una vera rivoluzione demografica: in alcuni paesi una famiglia su 3 aveva abbandonato la patria.

Una statistica, provvisoria e non ufficiale, relativa agli emigrati legali dalla Valsugana verso l’America, compilata dalle autorità amministrative del capitanato distrettuale di Borgo per il periodo tra il 1874 ed il 1884, ci aiuta a capire come il grosso dell’emigrazione valsuganotta verso l’America si ebbe dal 1874 al 1879 (su circa 3.250 emigrati segnalati, 1.826 partirono nel solo 1875) ed una grande maggioranza si diresse verso il Brasile.

Per quanto riguarda la destinazione dei flussi però mancano le indicazioni certe in quanto il documento, pur nominando il Brasile praticamente in ogni annata, fa talvolta riferimento genericamente all’America. Ma sulla base delle ricerche da noi portate avanti per anni in territorio brasiliano, pensiamo di poter affermare che i quattro quinti del valsuganotti che abbandonarono il Trentino per l’America tra gli anni ’70 ed ’80 del secolo scorso, scelsero il Brasile. Che, tra l’altro, offriva loro il viaggio via mare gratuito. Il rimanente di quei flussi si diresse verso l’Argentina. In tutti e due i casi, quella gente scelse di entrare nelle colonie pubbliche dove ottenne un appezzamento di terreno.

Si trattava, infatti, di intere famiglie che abbandonarono il Trentino esattamente con l’idea di ritrovare una propria identità contadina in America. Prova ne sia che le informazioni fornite dalla statistica del Capitanato distrettuale di Borgo garantiscono che su 3.250 emigranti circa, quasi 1.500 avevano meno di 17 anni.

Ritroveremo quella gente, di lì a poco, soprattutto nelle colonie brasiliane di Santa Catarina ed Espirito Santo ed un poco meno in quelle di Rio Grande do Sul.

Sui valsuganotti invece che scelsero il trasferimento in Argentina non disponiamo che di pochi dati. Tra questi quelli fornitici da Aldo Dante Pertile che in un suo studio annota come i trentini che tra gli anni ’70 ed ’80 si diressero verso le colonie pubbliche delle province del Chaco, Entre Rios, Santa Fe e Cordoba, molti erano originari della Valsugana: Borgo, Pergine, Levico, Castelnuovo, Grigno, Telve.9

Vita difficile nelle colonie, ubicate in territori a clima tropicale o sub tropicale il più delle volte, in piena foresta vergine per quanto riguarda il Brasile (ma anche le terre del Chaco argentino), lontano da città, ferrovie e strade. Ma dopo un periodo tragico di qualche mese, il colono si trovava proprietario di un appezzamento di terra di 20-30 ettari che gli forniva il necessario, ed anche di più, per la sua vita. E che gli permetteva di coltivare quelle tradizioni contadine centenarie che in Europa erano invece assediate e costrette all’agonia da una modernità che stava avanzando velocemente assieme al sistema di produzione capitalistico.

Nelle terre bosniache

Colonizzatori quindi, ben più che in altre valli trentine, o in altre zone italiane. Ma i valsuganotti in quel periodo che va dal 1874 al 1914 parteciparono numerosi anche ad un’altra "avventura di colonizzazione". Anche se i numeri, stavolta, furono decisamente meno corposi. Si trattava delle colonie create dal governo imperiale austriaco nelle terre di Bosnia ed Erzegovina che passarono dall’amministrazione turca a quella austriaca dopo il Congresso di Berlino del 1878 e ben presto furono occupate militarmente dall’esercito di Francesco Giuseppe. Già da quell’annata incominciarono a confluire in Bosnia, alla chetichella, gruppi anche cospicui di lavoratori trentini.10

Si trattava soprattutto di operai e braccianti che cercavano lavoro nella costruzione di strade o di infrastrutture che il governo austriaco stava finanziando nelle nuove terre. A partire dal 1879, però, sui giornali trentini si iniziò a vociferare di colonizzazioni che gli austriaci volevano mettere in essere in Bosnia ed Erzegovina, anche per popolarle di genti fedeli alla corona e contrastare la grande influenza dell’islamismo. In molti casi, varie famiglie trentine tentarono di contattare direttamente le autorità amministrative di quelle zone per ottenerne terra, in proprietà o in affitto. E ben presto nacque un flusso spontaneo di persone che dal Trentino si trasferivano definitivamente in Bosnia.11

I valsuganotti furono della partita e tra le prime famiglie a spostarsi troviamo i Lorenzin, Libardoni, Perina ed Andreatta di Levico, Trainer, Dalprà, Montibeller e Boschele di Roncegno.

Nel 1882, infine, l’amministrazione bosniaca decise di mettere mano alla colonizzazione, su terre libere o in mano ai begs, nobiltà di origine turca. Quando nell’autunno del 1882 un periodo di piogge eccezionali devastò vaste aree europee e mise sulle ginocchia l’economia agricola trentina, infierendo duramente sul territorio della regione, i progetti di colonizzazione vennero accelerati.

Di lá a qualche tempo nelle zone bosniache giunsero migliaia di contadini provenienti da molte zone dell’impero austro-ungarico: di lingua italiana, tedesca, russa, rumena, slava.

Nel 1883 partirono dal Trentino i primi "esploratori", legati ad altri gruppi di famiglie disposte a trasferirsi in quelle terre. Tornarono con buone notizie: c’erano terre disponibili, sia per l’acquisto che per l’affitto. Nell’estate del 1883 iniziarono le spedizioni trentine verso Bosnia ed Erzegovina. La gente copriva quella distanza (con tutto quanto poteva portare con sé) facendo uso soprattutto del treno. Le spedizioni si susseguirono ed i contadini vennero stabiliti in alcune località, nella zona di Banja Luka. Si trattava di famiglie provenienti dalla Valle dell’Adige (Aldeno, Romagnano, Ravina soprattutto) e dalla Valsugana (Roncegno, Borgo, Ospedaletto). Un folto gruppo di famiglie trentine, molte originarie di Nave S. Rocco e dintorni, a Nord di Trento, si diresse anche in Erzegovina, nella zona di Konjic. Queste ultime, dopo un infernale inverno vissuto tra stenti e privazioni, sbandarono e fecero ritorno in Trentino. Raccontarono di patti non rispettati dalle autorità locali, terreni impossibili da coltivare, imbrogli di tutti i generi. Molti furono i morti, per malattia, sottonutrizione e stenti.

In Bosnia invece gli altri trentini vennero convogliati nelle zone di Mahovljani, Laktasi, Prniavor, Kobatovci, Palackovic, Krnete. In tutto in quegli anni ’80 si spostarono forse un migliaio di trentini tra Bosnia ed Erzegovina. Nelle liste dei partenti tra il 1883 ed il 1884, proposte da Umberto Raffaelli, si contano circa 700 persone.12

Tra costoro si trovavano con certezza più di una cinquantina di famiglie della Valsugana (di molte altre di cui non si conosce con certezza l’origine, però, i cognomi stanno ad indicare la provenienza dalla valle del Brenta). Ma negli anni seguenti furono altri i nuclei familiari valsuganotti che partirono alla spicciolata: "ricordiamo che da Ospedaletto, nel maggio 1883 erano iscritte per l’emigrazione in Bosnia più di 100 persone, per non parlare di quelle di Roncegno".13

Doveva trattarsi di una colonizzazione dagli esiti meno drammatici di quelle brasiliana ed argentina, portata avanti in Europa, anzi, in un territorio che era amministrato dalle stesse autorità imperiali che governavano sul Trentino. Ma in effetti così non fu, a dimostrazione di come un processo di colonizzazione di nuove terre abbia comportato, ad ogni latitudine ed in ogni epoca, difficoltà notevolissime.

In Bosnia si formarono, col tempo, due zone in cui venne concentrata l’immigrazione trentina: nei pressi di Mahovljani le famiglie originarie di Aldeno e dei dintorni di Trento (con qualche valsuganotto) e nei pressi di Stivor quelle provenienti dalla Valsugana. Ma la cosa non avvenne nei primissimi anni, che furono densi di difficoltà, con coloni costretti ad affittare terreni di altri per il mancato rispetto delle promesse di distribuzione di terra. Scriveva al suo ex padrone Rachele Girardelli di Scurelle, emigrata in Bosnia con il marito e tre figlie il 15 ottobre 1884: "Dal giorno che siamo arivati non abbiamo ricevuto nissun denaro nemmeno animali e ancora dicono che a noi non ci consegnarano neanche per l’avenire: di vivanda una libra di farina al giorno e tristisima. Poi posso dire che abbiamo visuto per tre giorni addietro di solli frutti."14

La donna per sopravvivere aveva spedito le tre figlie a servizio a Banja Luka e chiedeva al barone, le cui terre aveva lavorato in Valsugana, di pagare alla sua famiglia il viaggio di ritorno. In una successiva lettera, scritta dalla figlia Clementina Girardelli, sappiamo invece che le autorità erano disposte a concedere dei terreni alla famiglia, ma non avrebbero aiutato i colonizzatori con nessun altro anticipo, né di animali, né di generi alimentari (come invece era previsto nei progetti di colonizzazione).

Dietro lettere come queste sono individuabili la stessa disorganizzazione e lo stesso pressappochismo che avevano portato alla disperazione le decine di migliaia di italiani che negli anni precedenti erano stati accomodati nelle foreste del Sud brasiliano. Solo che in Bosnia, quei trentini si trovavano in territorio amministrato dalle proprie autorità nazionali, dentro un progetto di colonizzazione messo in piedi dalla burocrazia asburgica. Eppure, Ursula Sigismondo, di Roncegno, scriveva in Trentino che la sua famiglia aveva ricevuto terra ma non aveva ricevuto gli alimenti necessari alla sopravvivenza sino all’avvenuto raccolto. E la terra concessa loro non era immediatamente lavorabile, in quanto si trattava di una porzione di bosco. Peraltro, la famiglia aveva speso tutto il danaro di cui disponeva per il viaggio in treno ed il pagamento delle spese di "osteria" per i primi 40 giorni di permanenza in Bosnia.

Come accadeva in Brasile alle famiglie che giungevano numerose in epoche non adatte alla semina, anche i Sigismondo persero il tempo propizio per la coltivazione (il che volle dire un anno di miseria).

Ma dopo i primissimi tempi di difficoltà, talvolta di vera e propria tragedia, i valsuganotti seppero rimettere in piedi una comunità, un’economia agricola soddisfacente. Secondo Mariarosa Sartorelli abbandonarono alla spicciolata i terreni che erano stati loro assegnati dal governo e, col tempo, si raccolsero nella zona di Stivor dove acquistarono nuovi terreni direttamente dai bosniaci.

A poco a poco rimisero in piedi una economia agricola basata sull’autoconsumo. Il poco denaro liquido che riuscivano a mettere assieme per acquistare quanto non era producibile in loco, veniva loro dalla vendita dell’uva, di cui si fecero grandi produttori, e dal lavoro (specie in edilizia) che i maschi trovavano nei vicini centri abitati durante il periodo morto dell’agricoltura.

Le famiglie trentine, pur mantenendo lungo i decenni vasti segmenti della loro cultura originaria, compresi i dialetti di valle del Trentino, si inserirono pienamente nella vita bosniaca. Ma la storia dei Balcani riserverà loro sorprese sgradite.

Le famiglie di Mahovljani, in grande maggioranza, abbandonarono quelle terre negli anni ’40, timorose di persecuzioni politiche e incitate a ciò dalle autorità fasciste. Dopo più di mezzo secolo dal loro arrivo in Bosnia vennero spostate in altre terre di colonizzazione, stavolta in Italia, nell’Agro Pontino.15

Resistettero, invece, i valsuganotti di Stivor. Ma durante gli anni ’70 ed ’80 del 1900, a decine e centinaia si sparsero per l’Europa in cerca di lavoro e di reddito, a causa della stagnazione economica della Bosnia all’epoca di Tito. Moltissimi, poi, dovettero fuggire dalla guerra civile (anche facendo ritorno in Trentino dopo cento e più anni) che avrebbe dissolto la Jugoslavia in anni recenti. Ma ciò accadde quando quelle terre erano state messe a coltura: quei colonizzatori avevano vinto la loro battaglia.

L’ultimo sogno coloniale, Minas Gerais

Per decenni ancora la Valsugana offrì al mondo famiglie contadine che cercavano una terra in proprietà, per poter continuare a vivere secondo cadenze che le erano state proprie per secoli. Quando il governo brasiliano, fortemente condizionato dai grandi piantatori di caffè di S. Paolo, abbandonò a se stessi gli esperimenti di colonizzazione, i valsuganotti (anche se in numero più contenuto) continuarono a dirigersi verso il grande paese latino-americano. Li attirava ancora quel biglietto di viaggio gratuito. Che stavolta, però, non li avrebbe condotti verso un lotto di terra in proprietà, ma verso la fazenda, la grande piantagione di caffè dove per anni avrebbero dovuto servire un padrone, spesso in condizioni davvero ingrate.

Il sogno, propagandato a bella posta dai latifondisti e dai governi da questi egemonizzati, era quello di poter acquisire una terra propria dopo alcuni anni di permanenza al servizio del nuovo signore. Cosa però che accadde per una percentuale piuttosto bassa di quelle centinaia di migliaia di contadini italiani (moltissimi i veneti) che emigrarono a San Paolo. Nel 1910 e 1911 un folto gruppo di valsuganotti venne ancora attirato verso un esperimento di colonizzazione portato avanti in Brasile, stavolta nello Stato di Minas Gerais. Uno studio dell’Ufficio per la Mediazione del Lavoro di Rovereto16 stabilì che nel 1911 erano emigrate dal Trentino 22.445 persone. In realtà, quel numero non si riferiva all’intero campione della popolazione trentina. Erano stati sentiti solo 300.000 abitanti per quanto concerneva l’emigrazione continentale e 289.000 per quella transoceanica (su una popolazione totale di 377.077 persone). Furono probabilmente più di 25.000 gli emigrati trentini in quell’annata. Un dato certo, comunque, era la scarsa attrazione esercitata ormai dall’America e che promanava quasi esclusivamente dagli Stati Uniti. Infatti, sugli oltre 22.000 emigrati annotati dall’Ufficio roveretano, solo 3.153 si erano diretti in America: e di questi 2.153 avevano scelto gli Usa, 575 l’Argentina e solo 218 il Brasile. Un dato interessante riguardava la Valsugana che da sola aveva fornito 54 espatri verso l’Argentina e 120 verso il Brasile (solo 74 le partenze verso gli Usa).17

Tra questi ultimi si contavano 44 uomini, 25 donne e 51 ragazzi sotto i 14 anni.

Gli studiosi dell’Ufficio per la Mediazione del Lavoro sottolinearono la cosa: "Se fortissima è in Valsugana l’emigrazione continentale, debole invece vi è l’emigrazione transoceanica e questa con uno spiccatissimo carattere coloniale; mentre infatti in nessun altro distretto del Trentino troviamo una forte emigrazione mista, cioè di uomini, donne e fanciulli, per il Brasile la troviamo invece nel Distretto di Borgo. Omettendo infatti i dati per Bosentino, troviamo nel 1911 un’emigrazione di 120 persone, di cui 51 sotto i 14 anni, per il Brasile, mentre verso la fine del 1910, come informa il municipio di Borgo, partivano 8 famiglie di complessivamente 52 persone in compagnia di altre famiglie dei limitrofi comuni per il Brasile e precisamente per lo Stato di Minas, con l’intenzione di darsi all’agricoltura".

In effetti, nel 1910 la politica immigratoria del governo regionale di Minas Gerais si era fatta più competitiva nei confronti dei concorrenti di S. Paolo. Anche in questo caso si trattava di reperire manodopera per le piantagioni di caffè ed allo scopo, i paolisti erano stati maestri in ciò, si cercava anche di realizzare delle colonie in cui famiglie contadine riuscissero a venire in possesso di lotti di terra. La speranza era quella di illudere gli emigranti europei e di farli accorrere a migliaia alla ricerca di terra in proprietà, per poi invece deviarli verso le fazendas, dove avrebbero lavorato sotto padrone. Nel 1910 erano partite decine di famiglie per Minas dal Trentino e le autorità austriache si erano allarmate.

E quando sul "mercato emigratorio" appariva una nuova offerta di terre in proprietà, dalla Valsugana contadina si alzavano le mani dei capifamiglia e gruppi cospicui di persone partivano verso il nuovo sogno. Così avvenne nel 1910 e 1911. Si temeva potesse scatenarsi una nuova "febbre brasiliana", come era stato negli anni ’70 ed ’80. Le cose parvero precipitare e agli inizi del 1911 una novantina di famiglie, forse 500 persone, partirono per Minas.

C’era gente del Roveretano, della Val di Cembra e, soprattutto, della Valsugana.18

Per quanto è dato di sapere, i valsuganotti e gli altri trentini si diressero verso la colonia Wenceslau Braz, sovvenzionata dal governo ma di proprietà di un privato, un vescovo. Le poche notizie che si ebbero all’epoca in Trentino su quel flusso migratorio direbbero di un insuccesso di quella spedizione. Le autorità amministrative parlarono di "plaga del tutto inadatta ai nostri emigranti"19 e informarono che quelle famiglie in gran parte sbandarono, ed alcune chiesero ai consolati austriaci di pagare loro il rimpatrio.

Più recentemente uno studio brasiliano ha confermato che a Wenceslau Braz giunse effettivamente il gruppo di immigrati e che le cose non girarono affatto bene per loro. Ecco come si erano svolti i fatti. Nel 1910 l’arcivescovo di Mariana aveva firmato un contratto con lo Stato: entro 2 anni avrebbe importato coloni europei fondando una colonia nelle sue terre. Un rappresentante dell’arcivescovo fu in Europa a scegliere gli immigranti. Ritornò con 48 famiglie. Arrivando alla colonia 38 famiglie (altre rimasero a Rio in attesa dei bagagli che per un disguido non erano giunti con loro), trovarono solo 10 case per alloggiarli. Gli immigrati furono mal accomodati, parte in vecchie case della fazenda dell’arcivescovo, parte in case di Sete Lagoas, una località vicina. Non ricevettero i lotti di terra e gli aiuti che erano stati loro promessi. Si ebbe probabilmente una sollevazione dei contadini. Per evitare problemi diplomatici intervenne il governo di Minas che dovette assumere la direzione del nucleo e trasferire gli immigrati in altre colonie dello Stato. Intanto, la maggior parte delle famiglie abbandonò la colonia per trasferirsi a San Paolo.

Probabile che qualcuno sia rimasto infine nelle terre dell’arcivescovo, ma di ciò non si ha conferma.

I valsuganotti, comunque, erano ancora una volta accorsi numerosi al richiamo della terra in proprietà. Lo avevano fatto sin dall’inizio, da quel 1873 in cui Pietro Tabacchi era stato in Trentino per avvicinare famiglie coloniche da avviare nelle sue terre di Espirito Santo. E lo fecero copiosi negli anni ’70 ed ’80, attirati dalla colonizzazione imperiale brasiliana (oltreché da quella ufficiale argentina e dalle nuove colonie messe in piedi in Bosnia da sua maestà l’imperatore Francesco Giuseppe). La loro vita in colonia, come quella di decine di migliaia di italiani del Nord, tedeschi e polacchi, fu inizialmente durissima e densa di tragedie. Ma in breve in quei territori nacquero delle comunità abbastanza fiorenti, basate sulla piccola proprietà diretto-coltivatrice. Comunità che ancora oggi portano nomi che ricordano la Valsugana: Valsugana, Valsugana Vecchia, Valsugana Nuova, Samonati, Ronzenari. Come pure, il ricordo valsuganotto è presente nel centro della Bosnia, a Stivor, non solo nei cognomi che ricordano la valle del Brenta ma anche nel dialetto dei vecchi.

NOTE AL TESTO

1 Per quanto attiene alle ragioni storiche che aprirono i flussi migratori dal Trentino verso l’America, si veda R. M. Grosselli, Vincere o Morire. Contadini trentini (veneti e lombardi) nelle foreste brasiliane. Parte I: Santa Catarina 1875-1900, Provincia Autonoma di Trento, Trento 1986.

2 Si veda E. Fietta Ielen, Con la cassela in spalla: gli ambulanti di Tesino, Ivrea 1987.

3 Verso fine Ottocento la proprietà media trentina non raggiungeva l’ettaro e mezzo di estensione ma in montagna si assestava tra l’ettaro e il mezzo ettaro.

4 In realtà, un caso di trasferimento di poco più di 150 liguri nelle foreste di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, si ebbe nel 1836. Ma la cosa rimase fine a se stessa, mentre la spedizione di valsuganotti di cui tratteremo aprì le porte di una massiccia immigrazione italiana e trentina in Brasile. Si veda A. Franceschini, L’emigrazione italiana nell’America del Sud. Studi sulla espansione coloniale transatlantica, Roma 1908.

5 R. M. Grosselli, Colonie imperiali nella terra del caffè. Contadini trentini (veneti e lombardi) nelle foreste brasiliane. Parte II: Espirito Santo 1874-1900, Provincia Autonoma di Trento, Trento 1987, pp. 150-175.

6 Quella gente finì in gran parte in Santa Catarina ed Espirito Santo. Altri in Rio Grande do Sul, sempre in Brasile. Tra loro anche il prete di Caldonazzo, Bartolomeo Tiecher. La narrazione delle vicende della loro partenza dal Trentino e poi dal porto di Le Havre è contenuta in "La Voce Cattolica" (Trento), 04.11.1875.

7 L. Guetti, Statistica dell’emigrazione americana avvenuta nel Trentino dal 1870 in poi, compilata da un curato di campagna, Trento 1888.

8 Va annotato che al tempo erano inclusi in questi numeri anche gli emigranti dell’Altopiano di Lavarone. Ma la cosa non variava di molto perché non erano invece inclusi quelli di Civezzano che oggi può essere considerato Alta Valsugana.

9 D. Pertile, Canto a la voluntad, Federacion Medica del Chaco, Resistencia 1989.

10 M. Sartorelli, Ai confini dell’impero. L’emigrazione trentina in Bosnia 1878-1912, Provincia Autonoma di Trento, Trento 1995.

11 I nostri calcoli dicono che tra il 1878 e il 1914 furono forse 1.500 i trentini che emigrarono in Bosnia, centinaia dei quali rientrarono però dopo qualche tempo. Si veda R. M. Grosselli, L’emigrazione dal Trentino. Dal Medioevo alla prima guerra mondiale, Museo degli usi e costumi della gente trentina, S. Michele a/A 1998.

12 U. Raffaelli, Verso la Bosnia e l’Erzegovina: un caso di emigrazione organizzata, in C. Grandi (a cura di), Emigrazione. Memorie e realtà, Provincia autonoma di Trento, Trento 1990.

13 M. Sartorelli, op. cit., p.105. Così afferma la studiosa: "Un fattore caratterizzò l’emigrazione in Bosnia dalla Valsugana: la sua indipendenza. Nel caso degli abitanti di Aldeno, di quelli dei dintorni di Trento e di quelli di Nave S. Rocco, le partenze avvennero con una certa regolarità ed organizzazione e si concretizzarono tutte in tre sostanziali spedizioni avvenute nell’autunno del 1883. Nel caso della Valsugana, invece, il flusso verso le regioni bosniache iniziò prima e proseguì fino alla fine del secolo, con frequenti e continui espatri".

14 Scuola Elementare di Scurelle, Co’ la valisa en man. L’emigrazione da Scurelle e dalla Valsugana, Cassa Rurale di Scurelle-Comune di Scurelle, Strigno-Levico Terme 1997, p. 59.

15 Le vicende relative a quel trasferimento e a quella colonizzazione si ritrovano in P. Perotto, Radici Pontine, Pomezia 1990.

16 Ufficio per la Mediazione del Lavoro di Rovereto, L’emigrazione trentina nel 1911 (Tabelle statistiche), Rovereto 1912.

17 Il resto degli emigranti era diretto in Europa e più della metà rimaneva entro i confini dell’impero austriaco. Fortissima era la partecipazione valsuganotta ai flussi emigratori verso il Vorarlberg, dove gli uomini trovavano lavoro nelle costruzioni pesanti ed in edilizia e le donne e i minori nella fiorentissima industria tessile. C. Grandi, Dalla Valsugana al Vorarlberg. Una storia di donne (1870-1915), in AAVV, La migrazione artigianale nelle Alpi, Arge Alp, Bolzano 1994.

18 Ufficio per la Mediazione del Lavoro di Rovereto, op. cit., pp.7-23 e 29.

19 "Il Trentino" (Trento), 19.05.1911.

 





Dal sito: http://www.iicsp.org/htm/det_livro.htm

I contatti fra l’Italia e il Brasile, come spiegano molti libri celebrativi e, di tempo in tempo, gli specialisti di storia delle scoperte, risalgono alle origini del rapporto fra l’America “novamente retrovata” e l’aggressiva Europa delle prime decadi dell’era moderna ovverosia, personalizzando, ai tempi di Pedro Alvares Cabral e, appunto, del nostro Amerigo Vespucci, entrambi grandi navigatori e primi avvistatori della costa brasiliana.
Passando attraverso una serie insigne e rappresentativa di mediatori simbolici come il cronista di Magellano, il vicentino Antonio Pigafetta (ma qua e là anche attraverso intermediari pratici: si pensi ai gesuiti e agli altri religiosi e missionari italiani che vi approdano fra Sei e Settecento) nemmeno più tardi, dopo tali esordi pur significativi, il Brasile rimane mai propriamente, per l’Italia, una “terra del tutto incognita”. Sino agli albori del secolo XIX, tuttavia, quando esso muta il proprio stato politico grazie all’indipendenza dal Portogallo e all’insediamento di un ramo cadetto della dinastia di Bragança sul trono di un “Impero” inventato quasi dal nulla, il Brasile è senz’altro una terra assai poco frequentata dagli italiani.
Sepolte le memorie, in effetti remote, dei soldati e dei marinai napoletani al servizio del signore di Bagnoli Giovanni Vincenzo Sanfelice giunti a Bahia fra il 1625 e il 1641 per motivi strettamente militari1 e collocati nello spazio, forse troppo angusto,2 del profugato politico i non pochi esuli della prima fase del nostro Risorgimento di cui diventerà emblema, con la sua Anita nata in Santa Catarina e col suo poncho gaùcho, Giuseppe Garibaldi “corsaro riograndense”, l’avvio di un nuovo tipo di legami fra Italia e Brasile, destinati poi ad evolvere e a durare sotto specie di relazioni internazionali3, nasce all’insegna di un matrimonio regale: quello celebrato nel 1843 fra l’imperatore Dom Pedro II e la principessa Teresa Maria Cristina di Borbone sì da collegare per qualche breve lustro a Rio de Janeiro e a Petropolis un Regno delle Due Sicilie dagli anni contati e in procinto di lasciare il posto all’Italia infine unificata.4
Anche sul piano delle relazioni “emigratorie” fra i due paesi – uno dei quali, dunque, il nostro, appena ai primi passi della propria esistenza politica – si tratta di un episodio importante che contribuirà a relegare nello spazio delle sperimentazioni occasionali e transitorie i rari tentativi primo ottocenteschi d’impianto di gruppi d’immigranti provenienti dalla penisola o di colonie agricole da essi formate in Brasile e più precisamente a Bahia (nel 1837 con l’arrivo di un folto gruppo di “deportati” romagnoli e marchigiani, sudditi ribelli del Papa) e in Santa Catarina (dove a Tijucas, nell’alta valle dell’Iguassù, per impulso di un agente consolare sardo, Enrico Schustel, e di un nostro connazionale “importatore” di braccia europee, tale Filippo De Stefanis, già si erano fissate fra il 1836 e il 1840 una trentina di famiglie rurali genovesi).
Vero è che sotto un profilo strettamente legislativo la svolta impressa da Dom Pedro II alla politica popolazionistica dell’Impero rimonta poi al 1850 (l’anno della Lei de Terras che soppianta l’antico sistema coloniale delle sesmarias introducendo il criterio delle assegnazioni regolate di lotti di terreno vergine ai coloni in pectore europei) e, in forma se possibile più drastica, a diciassette anni più tardi quando un’altra legge (la n. 3784 del 19 gennaio 1867) spianerà per qualche tempo la strada alla pratica sistematica dei reclutamenti e dei “richiami” mediante contratti affidati in appalto a grandi agenti d’immigrazione.5 Da un altro punto di vista, però, il matrimonio fra l’Imperatore e la giovane principessa napoletana è davvero alle origini delle operazioni seminali di trasferimento dall’Italia in Brasile di folti contingenti di nostri agricoltori il cui arrivo, nel 1875, segna l’inizio vero e proprio della nostra emigrazione di massa in territorio luso-americano: le ondate ben note, per intendersi, del primo esodo agricolo in Santa Catarina, Paraná e Rio Grande do Sul (1876-1896) che saranno seguite a ruota dall’“alluvione emigratoria” a São Paulo (1885-1901) con le sue diramazioni quasi coeve in Espírito Santo e in Minas Gerais, e che verranno poi integrate dalle molteplici riprese d’età giolittiana, del primo dopoguerra (1919-1926) e, dopo una stasi più che ventennale, dell’ultima vague postbellica (1950-1960 circa).
Gli “augusti sponsali” del 1843, comunque sia, sono anche l’antefatto lontano della vicenda di cui parlano le memorie, rimaste a lungo inedite, di Enrico Secchi, modenese di Concordia il quale racconta in pagine abbastanza avvincenti6 come proprio alla familiarità con l’imperatrice Teresa Maria Cristina della sua intraprendente compaesana e “datrice di lavoro”, Clementina Tavernari, siano da ricondurre l’arruolamento e il passaggio in Brasile di cinquanta famiglie “agricole” dell’Italia padana realizzati sul finire del 1874 da questa donna singolare e meglio nota, sebbene solo a pochi storici, con il nome di Adelina Malavasi. Tramite della sua conoscenza con la sovrana e dell’intimità che le aveva consentito a buon punto di formulare un ardito progetto di “colonizzazione pilotata” in Santa Catarina, era stato in effetti il suo ultimo compagno, l’Alfonso Malavasi gran concertista e suonatore di flauto apprezzatissimo alla corte di Rio de Janeiro di cui di nuovo discorre, giusto in apertura di diario, il nostro Secchi, un maestro elementare dotato a propria volta di notevole intraprendenza e subito risoltosi ad accettare l’offerta della gentildonna di fungere da suo segretario particolare e quasi da factotum dell’impresa.
Prima di azzardare una qualche comparazione fra ciò che nel “diario” postumo è contenuto a tale riguardo e quello che della “spedizione Malavasi” già da lungo tempo si sapeva, sarà il caso, però, di segnalare e porre in evidenza, in via del tutto preliminare, la discreta importanza delle memorie raccolte dal Secchi così nel campo delle scritture autobiografiche di ambito immigratorio brasiliano come in quello delle documentazioni private e per così dire “dall’interno” delle fasi aurorali di un’epopea quasi tutta contadina e popolare. Popolare e contadina ovvero, come si credeva e si diceva un tempo, incapace di fornire sul proprio conto una qualsiasi visione autonoma e formalizzata attraverso interventi che sarebbero stati resi difficili o che sarebbero stati del tutto impediti dall’analfabetismo dominante fra le popolazioni rurali e subalterne protagoniste dell’esodo giusta una regola verificata in larga misura, come vedremo, anche dagli emigranti “accuditi” dal Secchi, la stragrande maggioranza dei quali non sapeva in effetti né leggere né scrivere. Oggi, viceversa, sappiamo che le cose non stavano sempre o esattamente così e che le lettere, i diari e le autobiografie degli emigranti anche d’infima estrazione sociale non mancano costituendo anzi la loro compagine, se bene indagata e sottoposta ad appropriata “analisi testuale”, una delle voci individuali e corali senz’altro più suggestive nel quadro della documentazione di prima mano rimasta a disposizione degli storici di quel grandioso fenomeno che fu, tra Otto e Novecento, l’emigrazione, specie transoceanica, di massa.
Non sarebbe di per sé elegante o di buon gusto fare riferimento a questo punto solo ai contributi dati da chi scrive allo sviluppo, in Italia, degli studi su questo tipo di fonti7 alle quali appartiene a pieno titolo la prova memorialistica del concordiese Enrico Secchi, nonostante il discreto livello di acculturazione da lui esibito e a dispetto del fatto che egli fosse, in partenza, come si vedrà, un maestro di scuola elementare seppur di modestissime risorse e di ancor più modeste condizioni. C’è però, assieme alla storia in sé e alla storia della produzione delle fonti popolari e private scritte della nostra più antica emigrazione, anche un’altra storia che meriterebbe di essere raccontata o almeno accennata qui ossia la storia di come, nella prevalente mancanza sino a non molto tempo addietro di luoghi pubblici di raccolta in grado di conservare e di valorizzare questo genere di testimonianze incolte o semicolte, sia stato poi possibile nel giro di circa vent’anni mettere assieme un numero sufficiente di corrispondenze epistolari, di memorie o di autobiografie e di appunti diaristici tutti relativi alla grande emigrazione. Il loro recupero, come nel caso del “diario” di Secchi, è per lo più avvenuto grazie a pazienti ed ostinate ricerche in quelli che potremmo definire i piccoli archivi familiari della gente comune di cui a lungo si era trascurata o negata l’esistenza e, non di rado, anche grazie a una serie di fortunate coincidenze. È per questo motivo che, sempre per stare, in certo modo, in equilibrio sul filo dei ricordi e dell’autobiografia, mi sento incoraggiato a constatare adesso che circa vent’anni fa, nel 1979, usciva un mio libro, Merica! Merica!,8 tutto imperniato sulle lettere degli emigranti in Brasile e in Argentina al quale si potrebbe, volendo, attribuire un ruolo pionieristico in tutta la faccenda. La data della sua prima edizione italiana, come che sia, mi venne subito alla mente quando appresi le circostanze non del tutto casuali o soltanto fortunose di ritrovamento della testimonianza del Secchi.
Chi fosse Secchi, come si capirà fra poco, non mi era ignoto sin da allora, ma l’idea che egli avesse lasciato un suo diario o, per essere più precisi, una memoria autobiografica di emigrazione non mi sfiorava nemmeno da lungi. Di certo non lo sospettava Giovanni Battilana, un mio concittadino allora sacerdote che proprio nel 1979 partiva dalla sua Vicenza diretto in America per svolgervi assieme a un’ovvia attività pastorale anche quei compiti volontari di assistenza e di istruzione per i più giovani e per i più diseredati di cui tanto, a volte, abbisognano cittadine, paesi e quartieri urbani delle grandi metropoli nell’odierno Brasile. Battilana si stabilì nello Stato di Rio de Janeiro in una località non distante dalla capitale e vicinissima a Resende, di cui, di nuovo, io conoscevo solo vagamente il nome proprio perché collegato alle peripezie delle famiglie reclutate più di cento anni prima da Madama Adelina Malavasi: Porto Real.
Dopo molti anni di America, in mezzo a una classica comunità formata da brasiliani, afrobrasiliani e brasiliani di origine italiana e, quel che più conta, da un pugno di discendenti dei primi coloni arrivativi nel 1875, Battilana vestendo un po’ i panni dell’insegnante e un poco quelli del detective si trovò a un certo punto a interrogare i suoi allievi sulle memorie familiari “italiane” riguardanti i primi tempi della vita a Porto Real dove al nucleo iniziale dei modenesi, dei reggiani e dei mantovani si erano poi sovrapposti (e mescolati), col tempo, diversi contingenti di emigranti originari del Veneto e di altre regioni della penisola. Fu così che ebbe inizio la ricerca di uno scritto del Secchi di cui molti parlavano per sentito dire o del quale più d’uno supponeva l’esistenza senza sapere dove esso fosse di preciso conservato. Pur non essendo in possesso dell’ultimo dei suoi eredi fluminensi, ben presto si scoprì che il “diario” era stato “salvato” a São Paulo dove probabilmente era stato anche scritto e dove ad ogni modo prima l’autore e poi alcuni dei suoi eredi si erano stabiliti già agli inizi di questo secolo. Secchi, divenuto fra l’altro un ricco imprenditore paulista, era poi morto nel 1931 e quindi il suo lascito singolare di memorie giaceva quasi dimenticato lontano dall’Italia, ma lontano anche da Porto Real da più di sessant’anni. Recuperato grazie alla disponibiltà dei parenti del Secchi di qui e di São Paulo sempre per merito di Giovanni Battilana e fatto successivamente conoscere a Concordia, la località in provincia di Modena di cui erano originari sia la Malavasi che la maggior parte dei contadini da essa reclutati, dai responsabili dell’Istituto Italiano di Cultura di Rio de Janeiro, esso è appunto il testo sopra citato e ora ripubblicato in forma rigorosamente aderente all’originale ossia rispettandone la grafia e persino gli errori dovuti talora a mescolanze di linguaggio facilmente comprensibili (portoghesismi, deformazioni di nomi e di cognomi ecc.) e talora a sviste o a ipercorrettismi che non ne diminuiscono certo l’interesse documentario aumentando semmai il suo valore linguistico/dialettologico.
Nel panorama delle scritture memorialistiche e autobiografiche degli italiani emigrati in Brasile a fine Ottocento, da me indagato e delineato a partire dagli Stati del sud con qualche isolata integrazione paulista o capixaba,9 quella di Enrico Secchi non occupa un posto di particolare rilievo per meriti intrinseci di natura stilistico-espressiva o per mera precedenza cronologica rispetto ad altri testi analoghi nella stesura, la quale ultima, anzi, dovrebbe rimontare, come quelle di Antonio Lorenzoni o di Orestes Bissoli, all’inizio o tutt’al più alla metà della decade 1920. Le memorie di Secchi, tuttavia, un primato senz’altro ce l’hanno perché da un lato rievocano del tutto “dall’interno” quello che si può considerare il primo caso riuscito di “trapianto” di agricoltori italiani nel Brasile d’età imperiale e da un altro perché è quasi certo che ad una versione orale del racconto fornita in diverse occasioni dal segretario di Adelina Malavasi dovettero rifarsi i pochi autori di opere sulla nostra emigrazione in cui sia fatta menzione per esteso delle peripezie e delle vicende della colonia di Porto Real.
Lasciando a chi vorrà sfogliare il diario l’onere, d’altronde non gravoso, del confronto e il piacere della piccola scoperta di una storia singolare e a lungo dimenticata, mi limiterò in questa sede a copiere solo alcune osservazioni sul testo del Secchi le cui mende materiali riguardano per lo più, come sopra si diceva, l’errata trascrizione di alcuni nomi e l’intrusione nel suo "parlato/scritto” 10 di assonanze lusitane oppure ispaniche (Triporti per Tripoti, Malavazi per Malavasi, Capo Frio per Cabo Frio e ancora Damesaga per De Amezaga, Don Pedro II per Dom Pedro II, com per con ecc.) a causa di un plurilinguismo rudimentale fin che si vuole, ma del quale non sfuggivano nemmeno all’autore i rischi o certi inconvenienti (si veda, ad esempio, nella rievocazione del Secchi, l’aneddoto della sosta durante la traversata a Santa Cruz di Tenerife dove un fututo colono desideroso di procurarsi un po’ di aceto s’imbatte nella contraddizione, insanabile per lui, dei termini aceite e vinagre).
A riprova del fatto che la sua testimonianza viene sì dall’interno, ma, per così dire, anche dai piani alti (o meno bassi) dell’esperimento coloniale, in Secchi non c’è invece esitazione o deformazione dinanzi alla necessità di riprodurre i nomi delle autorità brasiliane e dei diplomatici o degli agenti consolari italiani di cui via via egli deve far parola e per ciascuno dei quali (Bruni, Perrod, Gloria, Iona, Usiglio, Bensamoni, il conte Antonelli ecc.) si potrebbero, naturalmente, somministrare qui annotazioni bio-bibliografiche del tutto pertinenti e persino, nel caso di Alberto De Foresta, anche “impertinenti” 11 Secchi pur facendo risuonare gli accenti di una voce non sempre coincidente con quella dei contadini emigranti, ma nemmeno d’altro canto ad essi ostile o del tutto estranea com’era talvolta o addirittura spesso la voce dei loro padroni al di qua e al di là dell’oceano, offre una testimonianza diretta e attendibile dell’accaduto che si distende lungo l’arco di alcuni decenni più o meno fra il 1874 e i primi anni del secolo XX.
Il cuore del suo racconto e le parti iniziali e principali ruotano ad ogni modo, come c’era da aspettarsi, attorno al viaggio per mare (un vero topos letterario del genere12) senza che troppi inconvenienti onomastici o linguistici ne vengano a turbare la trama su cui ritornerò qui sotto. Al momento, però, è un’altra l’annotazione che merita di essere fatta. La storia privata del segretario concordiese che alterna il lavoro di maestro a quello di amministratore, sia in colonia che in fazenda, a un certo punto, infatti, si separa da quella dei suoi paesani e degli altri italiani immigrati a Porto Real sino a diventare l’oggetto principale e unico della narrazione. Secchi, con i suoi ricordi, ci porta così in giro nel tempo e nello spazio visto che già nel 1885 aveva fatto un primo e provvisorio rientro in patria, dopo dieci anni “di America”, assieme alla famiglia formata proprio con una delle giovani Malavasi rimaste inopinatamente orfane di madre e considerato che sul finire del 1886, al momento di fare ritorno in Brasile, egli si era fissato prima a São Paulo e poi in altri luoghi come l’amata Rio de Janeiro o la minera Juiz de Fora, teatro entrambe della sua attività e della sua operosità “americane”.
Fu probabilmente a São Paulo, tuttavia, che lo conobbe di persona il pubblicista Alfredo Cusano a cui vale la pena di rivolgerci lasciando un po’ di spazio comparativo per la citazione del brano d’apertura di un suo noto libro di “impressioni e ricordi” su cinque anni passati in Brasile. Il volume vide la luce delle stampe a Milano nel 1911 a 36 anni di distanza dall’arrivo a Porto Real dei coloni di Adelina Malavasi ed anche la descrizione di Cusano è preceduta da un classico quadro “di traversata”, tra mare e cielo, che si sforza di riprodurre sensazioni di paura e di addolorato sgomento, le uniche di cui a suo avviso avrebbero fatto la prova i primi emigranti. Il capitolo che ne tratta, primo dell’opera, s’intitola “L’Anna Pizzorno” e a un certo punto si apre retoricamente al commento in questo modo: Furono queste le impressioni che provarono, valicando l’oceano, quei poveri esseri che si pigiavano, si rannicchiavano, 36 anni or sono, a bordo di quel modesto veliero, che, per la prima volta, dirigeva la prora verso il Brasile? Oh! Non si sbaglierebbe, certo, affermando che furono ben più dolorose, ben più tristi! Perché essi partivano completamente ignari, non avendo neanche il conforto dell’esempio. Né un parente, né un amico, fino allora si era mai recato dove loro andavano. Essi erano i primi! Andavano audacemente verso un mondo affatto ignorato; verso terre addirittura sconosciute; verso un paese che, da coloro che li avevano indotti a partire era stato descritto come un paradiso terrestre, e da altri abitato da selvaggi, popolato di belve e ancora quasi completamente inesplorato. Andavano non conoscendo altro che le terrificanti notizie, recate dai giornali, di quella spaventosa febbre gialla che vi mieteva vittime a centinaia, a migliaia. Eppure andavano, eppure si recavano a sfidare quell’ignoto pauroso, senza mezzi, senza guide, spinti solo dall’audacia del loro spirito forte, a strappare alla vita la suprema voluttà dei forti: la vittoria. Ma quante lagrime non furono piante in quei due vastissimi cameroni, giù nella stiva, nel silenzio della notte, in cui quegl’infelici, ammucchiati lì accanto alle loro misere robe, non sentivano altro ad ogni colpo di mare, che lo stridìo impressionante della catena del timone ed il battito del proprio cuore. L’“Anna Pizzorno” era partita il 2 dicembre 1874 da Genova con cento famiglie destinate a formare le due prime colonie italiane del Brasile. Le prime cinquanta, dalla signora Adelina Malavasi, familiare dell’imperatrice Maria Teresa, erano state raccolte in quel di Mantova, di Modena e di Reggio Emilia, per fondare nella provincia di S. Caterina un nucleo col nome della sua protettrice. E le altre riunite nelle provincie meridionali dal napoletano Sabino Tripoti, che dall’imperatore era stato incaricato, come la De Malavasi [sic], di fondare una colonia italiana a Paranaguà. Pensare al viaggio di quegli infelici, nei 56 giorni di sofferenze atroci della sua durata, non si potrebbe senza esser pervasi da una tristezza infinita.
Partita in un melanconico tramonto invernale, offuscato da minacciose nubi, l’“Anna Pizzorno” appena in alto mare fu colta una forte burrasca che durò tre giorni, orribile, fino allo Stretto di Gibilterra, dove la bonaccia la fece restare in panna per ventiquattro ore, e dove, nel giorno di Natale – tristissimo Natale! – ebbe il primo morto cui toccò per miseranda sepoltura il mistero delle onde. Ma le ansie e le torture di quei cinquantasei giorni furono il prologo doloroso che preparò, ritemprandola, quella massa d’ingenui e di forti, d’illusi e d’audaci, alla gran lotta che andava ad affrontare”.13
Facciamo sosta, per un momento, e consideriamo anche noi come un “prologo” questa citazione da cui si desume, nel confronto con il testo memorialistico, che Cusano era bene informato su molti dettagli del viaggio (al punto da far sospettare che avesse avuto a disposizione non tanto le confidenze dirette e a voce del Secchi, quanto forse addirittura una prima versione scritta del suo racconto autobiografico).
La tessitura retorica e comunque orientata della sua ricostruzione sebbene non escluda del tutto gli elementi di veridicità (la terribile burrasca di avvio, i due vastissimi cameroni nella stiva adibiti a dormitorio ecc.) e gli spunti di autenticità interpretativa desunti dalla fonte primaria (i dati cronologici e quantitativi corretti, le notizie sui due contingenti imbarcati grosso modo fondate ecc.), mescola disinvoltamente congetture e vere e proprie illazioni che Secchi si era guardato bene, per conto suo, dal compiere. Certo, forse gli emigranti padani e quelli meridionali dell’“Anna Pizzorno” cullavano tutti lo stesso sogno di un’America “paese di cuccagna” o “paradiso in terra” al pari di tanti altri prima e dopo di loro14, ma non è credibile che fossero, ad esempio, al corrente di una epidemia di febbre gialla in corso nel Brasile o di troppi dettagli geografici ed economici sul suo conto. Essi, poi, erano sì i primi nostri “regnicoli” a recarsi in gruppo in quel lontano paese destinato a diventare, per qualche decennio almeno, meta privilegiata di contadini e agricoltori del Nord Italia, ma qui di italiani approdativi fra gli anni Trenta e l’inizio degli anni Settanta ce n’erano comunque già parecchi mischiati a emigranti d’altre nazionalità come sappiamo meglio oggi e come forse non era difficile immaginare neanche all’inizio del Novecento stante la media accertata delle 12.450 unità annue fatta registrare dagli ingressi europei nei domini dell’Impero lusobrasiliano fra il 1855 e il 187415.
Anche sotto il profilo dei reclutamenti contrattati, a voler esser poi pignoli, la doppia o congiunta spedizione Malavasi/Tripoti arrivava circa due anni dopo la realizzazione di un altro “invio” del tutto simile di 388 contadini del Trentino austriaco, la “spedizione Tabacchi” dal nome dell’imprenditore trentino-capixaba che l’aveva preparata di lunga mano sin dal 187116, con destinazione Vitoria in Espírito Santo e con la partecipazione, confusi nel grosso gruppo “tirolese” dei sudditi asburgici, di non pochi agricoltori veneti (di due intere famiglie Zamprogno si sa che erano, ad esempio, di Montebelluna in provincia di Treviso). Anche del loro viaggio, attraverso le corrispondenze pubblicate, oggi diremmo quasi “in tempo reale”, da molti giornali di zona (“La Voce Cattolica”, “Il Trentino”) sappiamo vari dettagli e conosciamo alcuni particolari in tutto e per tutto somiglianti o coincidenti con quelli riferiti dal Secchi per la traversata dell’“Anna Pizzorno”. Nel resoconto traslato di Cusano, dove prevale sempre la nota epico/avventurosa (più o meno come nel serial televisivo di Rede Globo Terra nostra), sublimato dall’elogio del coraggio e dell’audacia dei pionieri, non manca nemmeno un classico ricorso agli stilemi del melodramma a lieto fine quantunque ritualmente turbato, secondo un altro cliché necroforico – e però nel rispetto minimizzatore dei luttuosi dati di fatto – dalla messa in scena della morte durante il viaggio e a causa del viaggio per mare (un drammatico evento che sulla nave ebbe a ripetersi, come documenta dal canto suo anche il Secchi, almeno un altro paio di volte dopo il “triste Natale” del 1874). Nessun cenno da parte di Cusano alle manifestazioni ludico-giocose (danze, manfrine, giochi di carte) e canore (con tanto di canti popolari espressamente menzionati) degli emigranti di cui invece dà conto il Secchi e meno che mai rinvii alla vera e propria festa carnevalesca allestita come d’uso al passaggio dell’Equatore dagli stessi contadini e dal personale di bordo con il beneplacito attivo del pur ruvido capitano Fossa, comandante dell’“Anna Pizzorno”:
Il secondo comandante e i due ufficiali, col nostromo, stavano combinando la sorpresa del passaggio della Linea [sc. dell’Equatore] e della cerimonia del battesimo. Avevano fatto preparare una botte [piena] d’acqua di mare rivestendola in modo che nessuno potesse sapere cosa contenesse. Durante le prime ore pomeridiane, diversi passeggeri si erano travestiti: uomini con abiti da donna e donne con abiti da uomo, pitturati con carbone, da far ridere anche quelli che, con timore, stavano aspettando di fare il gran salto... Già la campana di bordo aveva dato il segnale del cambio di guardia, cioè le sei pomeridiane. Tutti i passeggeri e uomini dell’equipaggio si trovavano in coperta in attesa del passaggio della Linea. Erano già le ore sei e mezza e noi di [prima] classe non avevamo ancora terminato di pranzare quando sentimmo un gran rumore e risate che venivano dal centro della nave. I nostri due giovincelli, Adolfo Crema e Bonaventura Tavernari, si alzano da tavola... per vedere cosa era successo. Ritornarono in fretta nella sala da pranzo dicendo che era arrivato il Nettuno, tutto ben vestito da re e che aspettava il comandante per dare principio alla cerimonia del battesimo. Allora il comandante si alza da tavola e si avvia verso il centro della nave e noi tutti, a cominciare dal Reverendo, lo seguiamo. Arrivati al luogo designato fece una riverenza al Nettuno che la ricambia con un discorsetto d’occasione, terminato il quale invita il giovinotto più coraggioso fra i presenti a farsi avanti per dar principio alla cerimonia del battesimo. Allora si fa avantio un giovinotto mantovano che, con tuta spavalderia: “Eccomi – dice – io non temo nulla”. “Bravo – gli dice il Nettuno – così mi piace. Intanto, per penitenza, dovete passare e ripassare su questo ponticello, indi, per primo, riceverete il tradizionale battesimo, come, del resto, lo riceveranno tutti quelli che, per la prima volta, attraversano la Linea”. Detto fatto: il giovanotto, che si chiamava Ferdinando Miglioli, prende la corsa sulla tavola di salita e, arrivato sulla sommità del piano, cade dentro al botte piena d’acqua marina, rimanendo a galla solamente la gonna statagli imprestata da una sua cognata. La cerimonia, com’è facile immaginare, sollevò le risa, urla e fischi dei presenti. Ed il gran salto? Erano le sette pomeridiane ed il Comandante informò che la Linea era stata oltrepassata durante la cerimonia del battesimo. Gli emigranti, informati del fatto, si misero a cantare allegramente: “La violetta la va la va” e “La Marianna la va in campagna” ecc. ecc. Indi ballarono fino alle nove della sera tutti soddisfatti e si ritirarono nei loro dormitori, considerandosi ormai americani...
Su questo genere di rito, appunto di “passaggio” sia in senso letterale che metaforico, disponiamo di innumerevoli riscontri e valga, per affinità, un richiamo alla descrizione che ne fece ad esempio per il secondo contingente reclutato dall’imprenditore teramano Sabino Tripoti, Nicola Marcone, un ex deputato del Parlamento italiano imbarcatosi anche lui con 500 emigranti mantovani “tutta gente sana e robusta” e diretta alla Colonia Alessandra in Santa Catarina, a breve distanza dal viaggio dell’“Anna Pizzorno”. Marcone viaggiava, nel luglio del 1875, sul vapore misto “Liguria” della compagnia Lavarello e racconta: “Lo stesso passaggio della linea equatoriale, annunciata con anticipazione, da’ provetti a’ neofiti, esagerando ad arte i pretesi effetti di quell’influenza, è occasione di continue emozioni e di scherzi. Si fanno battesimi d’acqua, fuochi di gioia, e sollazzi d’altra natura. Alle donne in particolar modo, è fatto credere che a quel punto prevarrebbero in esse i sensi fino a perdita di pudore! Ed alcune temono, altre forse sperano, ma si ride sempre...”.17
Nessun intento sdrammatizzante in Marcone, come del resto neanche in Secchi, ma solo un rendiconto puntuale di certi aspetti della traversata lungo le rotte dell’Atlantico australe che più tardi, dopo le rielaborazioni di Marazzi e, soprattutto, di De Amicis nel magistrale romanzo Sull’oceano (1889), diventeranno quasi un luogo comune letterario.18 Verso uno stesso punto, tuttavia, impastato un po’ d’imbarazzo se non anche di reticenza, convergono sia Secchi che Cusano per la nebulosità con cui entrambi in sostanza finiscono per sorvolare sui risvolti mercantili ed economici dell’iniziativa promossa da donna Adelina Malavasi e dal suo omologo maschile Sabino Tripoti nello stesso torno di tempo e per le stesse identiche ragioni, ma anche con esiti infinitamente meno soddisfacenti, di un terzo reclutatore di emigranti, che rispetto a loro si muoveva davvero in grande, ovverosia il brasiliano José Joaquim Caetano Pinto al quale propriamente si deve fra il 1875 e il 1877 l’introduzione in Brasile di oltre 35.000 italiani e l’inizio vero e proprio del nostro esodo agricolo di massa nelle provincie merdionali dell’Impero.19
Secchi parla genericamente di un “incarico” che la Tavernari/Malavasi avrebbe avuto di arruolare cinquanta famiglie di agricoltori per la fondazione di un nucleo coloniale in Santa Catarina intitolato al nome dell’Imperatrice “come primo saggio di colonizzazione italiana in Brasile”, ma pur annotando via via in concreto l’adempimento di varie clausole contrattuali, del contratto in sé non fa mai esplicitamente menzione specie per ciò che concerne i benefici economici che ne sarebbero dovuti derivare alla sua padrona; Cusano, dal canto suo, non fa che ripetere, pari pari, le informazioni del primo e la sua stessa accomodante fraseologia in forza della quale un lettore sprovveduto potrebbe oggi anche equivocare travisando un passaggio invece cruciale della politica popolazionistica del Brasile di Dom Pedro II.
Lasciando del tutto da parte la questione in quest’ottica americana, basti sapere, tuttavia, che esso si traduceva, in Italia, nell’avvio delle pratiche, destinate a diventare poi frequenti se non anche normali, di quel vastissimo “commercio dell’emigrazione” su cui sin dall’inizio si interrogavano spaventati o quanto meno perplessi diversi osservatori. Uno di essi, senz’altro non sospettabile di antiemigrazionismo preconcetto, scriveva nel 1877 in una sua informatissima raccolta di “Studi”:
Gli imprenditori di cui ora vuolsi tener parola sono quelli che per contratto trasportano gli emigranti alle colonie del Brasile. Essendosi essi obbligati ad introdurre un numero determinato, sono in grado di far conoscere le condizioni esatte tanto del trasporto quanto dello installamento nelle colonie. Malauguratamente, però, essi devono il più delle volte servirsi di agenti secondari, le cui tristi gesta sono già note, ed allora quelle condizioni vengono nel fatto alterate dalle fallaci promesse che codesti agenti adoperano fra le popolazioni. Gl’imprenditori per conto dei quali furono in questi ultimi anni arruolati molti italiani sono: la signora Malavasi, il signor Tripoti ed il sig. Pinto. La signora Malavasi, morta nello scorso anno al Brasile, fu essa in persona nella nativa sua provincia di Modena a raccogliervi parecchie famiglie di contadini e con esse partì pel Brasile... Le condizioni che pel contratto la signora Malavasi poteva offrire agli emigranti erano le seguenti:

1° Trasporto gratuito dal porto di Genova a quello di Rio de Janeiro ove erano ricevuti ed alloggiati nell’ospizio dei coloni, donde poi s’avviavano al luogo loro destinato;

2° Ad ogni colono maggiore di 14 anni e minore di 50 anni il Governo concedeva:
I. Uno spazio di terreno di 605,000 metri quadrati;
II. Una casa provvisoria della capacità necessaria per una famiglia di cinque individui...;
III. Un sussidio giornaliero non eccedente i 500 reis (pari a soldi italiani 30) per ogni individuo di qualsiasi età durante i primi tre mesi dal suo definitivo collocamento;
IV. Il prezzo dei terreni e delle case provvisorie, le spese degli alimenti e del trasporto dal porto di sbarco al luogo della installazione e il prezzo degli strumenti agricoli dovevano essere pagati dai coloni al Governo nei modi seguenti: per la metà del debito, se il pagamento era fatto alla fine del terzo anno dalla installazione; per due terzi del debito quando questo fosse stato soddisfatto nel periodo di cinque anni; per intero se era pagato nel termine di sette anni. Se dopo sette anni dal suo collocamento, l’emigrante non avesse estinto il suo debito, doveva pagare al governo l’interesse annuo del 6 per cento sulla somma di cui sarebbe rimasto debitore. Molto vantaggiosi erano questi patti, e si hanno sicure notizie che i coloni andati colla signora Malavasi si trovarono e si trovano bene...20
Nella sua qualità di subagente o di “agente secondario” come avrebbe detto il Marchesini, Enrico Secchi non poteva conoscere o forse immaginava soltanto l’ammontare della “provvigione” pro capite spettante all’imprenditore principale ossia, nel suo caso, alla signora Malavasi, ma si ha l’impressione che né costei né tanto meno lui avessero imbastito una vera e propria speculazione sul tipo di quelle già tentate dal Tabacchi o sperimentate in contemporanea dal Tripoti e soprattutto da Caetano Pinto. Dagli studi di Renzo Grosselli abbiamo imparato quanto largo fosse il margine di guadagno concesso dalle autorità di governo imperiali agli agenti d’immigrazione – un “premio” che eccedeva quasi di due volte i costi complessivi a cui si doveva far fronte per i preparativi di viaggio e per il trasporto marittimo di ciascun individuo “arruolato” – ma nella fattispecie della sfortunata signora Malavasi, partita dopo i suoi emigranti sul vapore “Poitou” ed arrivata ugualmente prima di loro a Rio de Janeiro appena in tempo per vederli sistemati alla buona prima di morire, a 54 anni, di febbre gialla, si può stare sicuri che essa fece in un certo senso “una buona azione” (anche Tripoti, stando al Cusano, che pure ebbe assegnato in compenso dal governo per i suoi servigi qualcosa come 200 contos equivalenti a 300.000 lire italiane di allora, morì anzitempo “affetto da alienazione mentale”).

Deliberato o no che fosse su questo effetto benefico concorda, col memorialista/protagonista, Alfredo Cusano e quasi mezzo secolo dopo di lui, al tempo di una famosa visita in America del Sud del Presidente della repubblica italiana Giovanni Gronchi (e del tutto pour cause) anche Franco Cenni in una sua monografia sugli Italianos no Brasil. Essa però, a proposito dell’insediamento di Porto Real, tradisce una dipendenza pressoché assoluta più che dalla fonte primaria in sé (Secchi) proprio dal libro di Cusano. Sicchè non farebbe gran differenza, a questo punto, citare l’uno o l’altro anche se può forse risultare istruttiva una lettura sinottica delle loro ricostruzioni:


CUSANO

E fu per la strage che faceva la terribile epidemia, che, da mentre le cinquanta famiglie meridionali partivano per Paranaguà... il governo imperiale faceva partire immediatamente le altre cinquanta famiglie per Porto Real, nello Stato di Rio, facendole stabilire provvisoriamente in una fazenda che aveva comprato per circa 300.000 lire. Ma, morta la De Malavasi, un giovane maestro elementare di Concordia (Modena) che l’aveva seguita in qualità di segretario, sposando poi la superstite nipote di lei, il signor Enrico Secchi (che è ora uno dei più stimati e ricchi italiani di S. Paolo) prese la direzione di quel povero gruppo di emigranti. Ed egli credette opportuno chiedere al governo la concessione in lotti di vasti terreni presso la fazenda dov’erano stati accolti provvisoriamente. La concessione fu fatta ed a prezzi modicissimi, ma il pagamento non fu mai eseguito dai coloni... La colonia di Porto Real si sviluppò rapidamente e giunse ben presto a tal punto di progresso che fu prescelta dal governo come modello per essere visitata dagli illustri ospiti. Dopo un paio d’anni però cominciò a decadere per la cattiva scelta delle persone preposte alla sua amministrazione. Rifiorì ancora sotto la direzione dell’ingegnere del genio militare Luiz de Souza Pitanga, che morì dopo un anno, nel 1878, epoca in cui la colonia fu emancipata dal governo e ne fu data la concessione ad una Companhia Centro-Agricola, che vi impiantò un Engenho Central per lo sfruttamento della canna da zucchero dove lavorano ancora tutti italiani. Ma la colonia non riacquistò più la sua primitiva importanza....


CENNI

Os imigrantes foram recolhidos a um pavilhao da Gamboa e, em seguida, o governo imperial decidia que... se fixassem no Estado do Rio de Janeiro, numa fazenda de Porto Real. Foi então que um jovem mestre-escola de Concòrdia, da provincia de Modena, Enrico Secchi, que tinha seguido viagem na qualidade de secretario da senhora Malavasi, casouse com uma das sobrinhas, tomando a direção do grupo. Solicitou e obteve do governo a divisão em lotes de vastos territorios localizados perto da fazenda onde estavam hospedados, e desta forma a colonia Porto Real desenvolveu-se ràpidamente chegando a ser indicada como “Modelo” pelas proprias autoridades do governo. Mais tarde, em 1878, a colonia emancipava-se, sendo cedida a uma “companhia centro-agricola” que nela instalou um engenho de cana-de-açucar, onde os italianos continuaram trabalhando. Por pouco tempo, porém. Pois o nucleo entrou em crise, decaindo ràpidamente. O fato provocou polemicas em varias jornais, mas a insatlaçao daquela colonia teve tambem seu lado positivo, pois a parte mais esclarecida da nação, que tinha como porta-voz o major jornal brasileiro daquele tempo, “O Jornal do Comercio”, reconheceu que o braço italiano era dos mais uteis para o progresso do Paìs...21


Il tratto iniziale della storia di Porto Real, ossia quello relativo al suo primo anno di vita, figurava ben delineato già nei “Relatorios” stilati dal Direttore della colonia per il Ministro di agricoltura e commercio il 10 e il 20 di novembre 1875 e riassunti poco più tardi nel suo libro dal Marchesini. Nel primo di essi, che pure potrebbe essere servito di base per la ricostruzione sommaria del Cusano o addirittura, ma sembra assai meno probabile, per la rievocazione di Secchi (qualora questi, che definisce il Direttore José Pinto Serqueira suo “padrino”, essendone venuto in possesso, ne avesse serbato copia), si ritrovano elencate minuziosamente tutte le informa+zioni essenziali sul buon andamento dell’iniziativa e sull’alto indice di gradimento manifestato dai coloni così francesi come italiani, felici di essere stati soccorsi anche oltre la fase di ambientamento prevista e pattuita dal contratto e pronti a renderne grazie con un messaggio collettivo: “Quest’ultima lettera – chiosa a questo punto il Direttore – fu scritta dal maestro italiano che generalmente scrive pei suoi connazionali, i quali, per la maggior parte non sanno scrivere...”.22


L’una e l’altra delle due relazioni, trasmesseci abbreviate dal Marchesini si dilungano quindi su svariati argomenti come lo stato sanitario della colonia neonata o indugiano su altri dettagli che non avrebbero poi trovato posto in nessuna delle ricostruzioni successive (come, ad esempio, l’accenno interessante all’invio in patria delle prime rimesse monetarie). Ma più in là di ciò, cronologicamente, non si andava e le integrazioni più tarde del Cusano o del Cenni, che neanch’esse si spingevano tanto oltre, davano quasi l’impressione che la parabola di Porto Real e dei suoi italiani si fosse conclusa lì e risultasse quindi come esaurita e disseccata già intorno al 1878, quando in realtà, e come minimo, la stampa in lingua italiana di Rio de Janeiro continuò a dedicare alla colonia sino alla metà della decade successiva svariati accenni, diretti e indiretti, alcuni addirittura sotto forma di romanzo d’appendice.23 Queste ad ogni modo erano, in sintesi, tutte le notizie di cui disponevamo sino al ritrovamento del manoscritto di Enrico Secchi la cui esposizione apparentemente modesta e dimessa contiene una serie importante di informazioni sui primordi dell’insediamento concordiese all’incirca sino alla metà degli anni Ottanta nonché, beninteso, su vari altri temi connessi al discreto “girovagare” dell’autore stesso attraverso il Brasile di fine Ottocento e d’inizio Novecento. Quali essi siano è presto detto o, meglio, sommariamente accennabile perchè in un catalogo come questo realizzato a titolo introduttivo, va da sé che non è possibile parlarne se non di sfuggita e, mi si perdonerà, molto alla rinfusa: le conseguenze del proibizionismo italiano rispetto alla concessione dei Nulla Osta all’espatrio nel 1874 sotto l’effetto della Circolare Lanza dell’anno precedente, l’interpellanza orale al Ministro dell’interno fatta nel 1874 da un deputato amico della Malavasi per sbloccare la situazione a Modena e nelle altre due province toccate dal reclutamento, l’eco in Brasile della morte di Vittorio Emanuele II, il “gran Re”, e la patriottica costruzione in suo onore di un monumento anche a Porto Real a istanza del Secchi stesso, la sua partecipazione, in veste di rappresentante consolare, ai rilevamenti per il terzo censimento degli italiani all’estero nel 1881, la visita alla colonia di alcuni ufficiali e di un medico militare della corvetta Vettor Pisani in sosta a Rio nel suo secondo viaggio di circumnavigazione del globo,24 la presenza e l’importanza dei fogli in lingua italiana e dei loro gerenti, le visite a Porto Real di persone e personalità di riguardo come appunto uno di questi direttori di giornali, Vitaliano Rotellini, o come il grande Ermete Novelli, la vita in fazenda a São Paulo e a Juiz de Fora tra immigranti nostri e schiavi neri da poco emancipati ecc.
Su tutto spiccano, peraltro, le informazioni e le descrizioni relative a certi aspetti della mentalità e della cultura popolare dei suoi compaesani emigranti ed emigrati che la penna del Secchi riesce a ritrarre con efficacia e con buoni risultati narrativi vista la contiguità sociale dello scrivente con i contadini così rappresentati. Fra costoro, per fare un solo esempio, l’episodio della visita di Dom Pedro II in colonia costituisce senz’altro un avvenimento epocale e un fattore scatenante di fortissime emozioni un po’ diverse, però, da quelle che pur prova, per suo conto, il nostro autobiografo, lieto e stupito per essere stato ammesso con somma liberalità al tavolo regale per il pranzo da Dom Pedro in persona. Secchi, a dire il vero, era già stato gratificato anche all’atto delle nozze con una delle figlie della Malavasi da una inattesa e cordiale prodigalità nei suoi confronti della imperatrice e di suo marito. Per lui insomma, all’inizio almeno di una “nuova vita” in Brasile, vedere il sovrano e stare in sua presenza oppure andare a rendergli omaggio a Rio e a Petropolis, fu, per qualche tempo, un fatto “eccezionalmente normale” e meritevole dunque di essere sottolineato nel racconto da glosse simili a quella che commenta l’invito a colazione, ottenuto per sé e per la giovane consorte, alla mensa del sovrano (“si poteva esigere maggior democrazia?”). Per i contadini, viceversa, le sensazioni e le emozioni provate dinanzi a un personaggio pressochè sacrale come l’Imperatore dovevano essere un po’ diverse se all’arrivo di Dom Pedro II a Porto Real nella fazenda modello degli italiani non sono tanto le urla di giubilo e di evviva alla famiglia reale e alla sua persona a lasciarci intendere l’attitudine culturale media di molti dei coloni, specie più anziani, quanto appunto le frasi sprizzanti felicità e consolazione di quel vecchio Celeste Provasi che scopertosi il capo e avvicinatosi al monarca si vede tendere da lui la mano sicchè in preda a incontenibile entusiasmo esclama, in schietto dialetto modenese e senza che lì per lì Dom Pedro, buon conoscitore della lingua italiana, lo possa capire: “Adès a mor cuntent, parchè a sont arrivado a bajar [recte bàsar o basèr] la man a una sacra maestà”.

Più che non questa ben nota “visione contadina” del re,25 così spesso attestata ancora a fine Ottocento nelle campagne italiane in cui più forte era la presa del tradizionalismo religioso,26 colpiscono però, per concludere in modo adeguato e maliziosamente simmetrico all’avvio del nostro discorso introduttivo, le parole di speranza e di gioia con le quali viene salutato da lungi il primo avvistamento delle coste americane, secondo il resoconto fattone da Secchi, da parte dei suoi compagni di viaggio e di avventura i quali nei pressi di Cabo Frio, con le proprie grida, sembrano quasi voler fare il verso, a distanza di tanti secoli, allo stupore e al compiacimento di Pedro Alvares Cabral o, ancor meglio, del loro antico predecessore italiano Amerigo Vespucci, sempre in rigoroso dialetto modenese: “Adès sì ca sem in Merica, viva il Brasilio!”.

Quali siano stati gli sviluppi dell’antica colonia, nata sotto questi auspici, si è potuto appurare grazie alla iniziativa di cui pure si dà conto nel presente volume che raccoglie, per impulso in particolare dell’amministrazione comunale di Concordia sulla Secchia, i risultati di una duplice ricerca. Affiancata ora anche dagli esiti di un importante convegno di studi sull’emigrazione degli emiliano-romagnoli, tenutosi il 26 e 27 ottobre 2001 appunto a Concordia e a Modena, con il concorso della locale amministrazione provinciale, tale ricerca era stata affidata alle cure di studiosi selezionati tramite concorso e incaricati di tracciare, per un verso in Italia e per un altro in Brasile, le “storie parallele” delle zone interessate dalla vicenda di cui il diario di Secchi narrò le prime origini. Quella che ne è scaturita per mano da un lato di Roberta Saccon e da un altro per merito di Beatriz Volpato e di Amedeo Osti Guerrazzi è dunque la continuazione o, per meglio dire, l’integrazione essenziale della storia iniziata un po’ avventurosamente sul finire del 1874. Volpato e Osti Guerrazzi hanno lavorato a fondo sul contesto di partenza riportando alla luce una gran quantità di notizie sulle condizioni dell’economia agricola e della società rurale modenesi agli albori della crisi agraria di fine secolo. Quantunque la ricostruzione dei quadri anagrafici e nominativi degli individui e dei gruppi familiari coinvolti nell’esodo del 1874-75 non sia stata possibile in forma integrale, a causa delle lacune esistenti nella documentazione d’archivio, il ritratto della realtà concordiese e novese e più in generale delle campagne modenesi del tempo, che i due autori ci offrono, risulta esaustivo e soddisfacente. Non ci dice molto di più di quanto già sapessimo sulle ragioni probabili della partenza – il bisogno per i più e la speranza di migliorare le proprie condizioni per tutti – ma ci illumina su una fase aurorale del futuro esodo in massa dalla Pianura padana. La specificità concordiese o modenese risulta legata, in effetti, alla circostanza dell’arruolamento che la Malavasi operò e che si ripercosse, lei scomparsa, nella evoluzione di Porto Real a cui son dedicate le indagini, anche queste assai puntuali e pour cause innovative, di Roberta Saccon. Se in Italia la fonte della ricerca sono stati i giornali, gli archivi dei Comuni e quello Centrale dello Stato, campo d’azione privilegiato di Volpato e di Osti Guerrazzi, in Brasile, dove corrispondendo all’impegno assunto in qualità di borsista la Saccon si è portata e ha lavorato nel corso del 2000-2001, le fonti si sono in certo modo dilatate. In parte per ovviare alla mancanza o alla dispersione, anche qui, di molti documenti di prima mano, ma in parte altresì per chiarire, col mezzo delle interviste e della raccolta di interessanti storie di vita, le ultime fasi di una evoluzione riguardante Porto Real. Negli archivi brasiliani, peraltro, e in specie presso quello nazionale di Rio de Janeiro, è stato un merito precipuo della Saccon avere individuato e recuperato gran parte delle informazioni che si mettono oggi a disposizione sull’impianto e i primi tempi della colonia esaminati infine non sulla sola scorta delle memorie secchiane, bensì sulla base dei carteggi e delle corrispondenze delle autorità preposte alla sorveglianza, finché tale rimase, del piccolo “nucleo” portorealino. Stralci della quotidianità coloniale e vari aspetti dell’esistenza dei concordiesi immigrati così come essa si svolse sino alle soglie del primo Novecento sono il frutto di questo benemerito scavo che pur non rivoluzionando lo stato delle conoscenze sulla centralità dell’engenho e della lavorazione dello zucchero in zona, quale si evinceva già dal diario di Secchi e dalle note del Cusano, mette a fuoco e precisa l’effettivo andamento della vita economica e sociale a Porto Real nei primi anni di funzionamento della colonia. Una colonia, scopriamo, che era già stata raggiunta, prima del 1875, da altri contingenti di emigranti europei e in cui i concordiesi convissero con gli afroamericani assogettati, sino al 1888, alle dure regole della schiavitù. Ma come la ricostruzione di Volpato e Osti Guerrazzi per il versante italiano non si arresta del tutto sul limitare del biennio cruciale di partenza, alla volta degli anni Settanta dell’Ottocento, quella di Saccon si allarga e anzi si allunga sin quasi ai giorni nostri disegnando i contorni di una serie di spostamenti territoriali ulteriori che ebbero per protagonisti i concordiesi attratti a un certo punto, non meno di Enrico Secchi (che però vi approdò in veste d’industriale della pasta e che, dopo aver fatto a lungo l’amministratore di fazende, vi fece fortuna per davvero) dalla calamita industriale di São Paulo. Nella grande metropoli paulista rimasta sino agli anni Trenta del Novecento per larga parte “italiana”, furono soprattutto i figli e i nipoti dei portorealini d’origine emiliana a stabilirsi e a ricercare nuove occasioni di lavoro coltivando qui i tratti di una eredità culturale di cui oggi si conservano, a voler essere schietti, solo pochi brandelli. Se però, perduta la parlata e il dialetto degli avi e messe in salvo quasi solo le tradizioni gastronomiche di base, i discendenti degli antichi emigranti della spedizione Malavasi sono stati in grado di rendere a Roberta Saccon quella serie interessante di testimonianze e di deposizioni che si vedranno e nelle quali affiorano ancora gli echi delle memorie familiari d’oltre cent’anni fa, l’opera a cui han messo capo gli sforzi dei tre ricercatori, ognuno per la sua parte, sembra meritevole di attenzione e regala un nuovo tassello di quella grande storia degli italiani all’estero di cui ultimamente si viene riscoprendo, anche da noi, la rilevanza. E ciò costituisce una constatazione gradevole, ma anche un pegno per futuri approfondimenti di qua e di là dell’oceano.


Note


1. V. Di Pace, Napoletani in Brasile nella guerra di liberazione dall’invasione olandese (1625-1640), Napoli, Casa Editrice Fausto Fiorentino, 1991.
2. E. Franzina, Gli italiani al nuovo mondo. L’emigrazione italiana in America 1492-1942, Milano, Mondadori, 1995, pp. 87-140.
3. A.L. Cervo, Le relazioni diplomatiche fra Italia e Brasile dal 1861 ad oggi, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1994.
4. M.L. Cusati, I due matrimoni Borbone-Bragança, in Aa.Vv., Novamente retrovato. Il Brasile in Italia 1500-1995, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’informazione e l’editoria, 1996, pp. 200-204.
5. E. Franzina, Stranieri d’Italia. Studi sull’emigrazione italiana dal risorgimento al fascismo, Vicenza, OdeonUp, 1994, pp. 127-180.
6. Un sogno: la Merica!. I miei 56 anni di Brasile. Diario di Enrico Secchi, introduzione di E. Franzina, edizione bilingue italiano-portoghese, Finale Emilia, Baraldini, 1998.
7. Si vedano comunque quanto meno i seguenti lavori: E. Franzina, L’epistolografia popolare e i suoi usi, in “Materiali di lavoro”, 1987, nn. 1-2, pp. 21-76; Idem, La lettera dell’emigrante tra “genere” e mercato del lavoro, in “Società e storia”, 1988, n. 39, pp. 101-125 e Idem, Autobiografias y diarios de la emigraciòn, in “Historia social” (Instituto de historia social U.N.E.D. Valencia), otoño 1992, n.14, pp. 121-142.
8. E. Franzina, Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America Latina 1876-1902, Milano, Feltrinelli, 1979 (l’edizione più recente riveduta e corretta di questo mio lavoro è comparsa col sottotitolo lievemente modificato e con l’aggiunta di un’ampia post-fazione come Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti e friulani in America Latina 1876-1902, Verona, Cierre Edizioni, 1994 e 2000).
9. E. Franzina, L’immaginario degli emigranti. Miti e raffigurazioni dell’esperienza italiana all’estero fra due secoli, Paese (Treviso), Pagus Edizioni, 1992, pp. 7-242.
10. Cfr. Le fonti popolari tra parlato e scritto, introduzione a E. Franzina, Una patria straniera. Sogni, viaggi e identità degli italiani all’estero attraverso le fonti popolari scritte, Verona, Cierre Edizioni, 1996, pp. 7-14.
11. Va sottolineato, a questo riguardo, che nello scrivere le proprie memorie il Secchi si avvalse di una documentazione – soprattutto epistolare – rimasta in sua mano, come si desume dalle citazioni interne, e che quindi ebbe modo di controllarvi nomi e denominazioni specie di estrazione ufficiale/ufficiosa e diplomatico-amministrativa. Di tutti gli agenti, i consoli, gli ambasciatori e gli incaricati di affari del Regno d’Italia con cui egli ebbe a che fare e che nomina nei suoi ricordi è facile conoscere oggi la biografia e la carriera attingendo a repertori come quello sui funzionari del Ministero degli Affari Esteri edito a cura del Dipartimento di scienze storiche e sociali dell’Università degli Studi di Lecce sotto la direzione scientifica di Fabio Grassi Orsini: La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915), Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1987, ad nomina. Per quanto riguarda invece le annotazioni “impertinenti” mi limiterei qui a fare il caso, tra i diplomatici citati dal Secchi, del regio incaricato di affari Alberto De Foresta (Nizza 1851-1906, a Rio de Janeiro tra il 1881 e il 1884 prima come segretario di legazione e poi come reggente della nostra ambasciata): egli incarnava alla perfezione il prototipo del rappresentante ufficiale dell’Italia in grave difficoltà nel comprendere i problemi e i comportamenti stessi dei suoi compatrioti, emigranti e contadini, che avrebbe dovuto seguire e tutelare, com’è evidente a chi legga il libro che scrisse a caldo rientrando in Italia nelle more del suo trasferimento ala sede di Washington: A. De Foresta, Attraverso l’Atlantico e in Brasile, Roma, Casa Editrice A. Sommaruga & C., 1884 (cfr. pp. 281-295 sulla emigrazione italiana a São Paulo, ma per un confronto narrativo appropriato col testo del Secchi si vedano anche le pagine 30, 84 e passim in cui l’aristocratico autore parla degli emigranti italiani da lui conosciuti a bordo del vascello francese “Senegal” in navigazione per il Brasile fra il marzo e l’aprile del 1881).
12. Cfr. E. Franzina, Le traversate e il sogno: viaggi per mare degli emigranti attraverso le fonti memorialistiche, in Aa.Vv., Il sogno italo-americano: realtà e immaginario dell’emigrazione negli Stati Uniti, a cura di S. Martelli, Napoli, CUEN, 1998, pp. 23-48.
13. A. Cusano, Italia d’oltremare. Impressioni e ricordi dei miei cinque anni di Brasile, Milano, Stabilimento Tipografico Enrico Reggiani, 1911, p. 8.
14. E. Franzina, America. Paradiso degli immigrati?, in “Quaderni dell’Istituto Italiano di cultura di San Paolo”, ottobre 1992, n.s., n. 3, pp. 227-240.
15. A. Lomonaco, Al Brasile, Milano, Società editrice libraria, 1900.
16. Cfr. R.M. Grosselli, Colonie imperiali nella terra del caffè. Contadini trentini (veneti e lombardi) nelle foreste brasiliane. Parte II Espírito Santo 1874-1900, Edizione a cura della Provincia Autonoma di Trento, 1987, pp. 150-173.
17. Gli italiani al Brasile per N. Marcone, ex Deputato al Parlamento nazionale, Roma, Tipografia Romana, 1877, pp. 15-16.
18. E. Franzina, Dall’Arcadia in America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia (1850-1940), Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1996, passim.
19. E. Franzina, Reclutamiento y confrontaciòn. La ‘importaciòn’ de italianos en Brasil (1876 a 1883), Relazione alla prima delle “Jornadas sobre emigraciòn” su “Mercado de trabajo, informaciòn e inmigraciones europeas en América Latina (1870-1930)”, Quinta Guadalupe, Colombres (Asturias), 18-21 agosto 1998.
20. Il Brasile e le sue colonie agricole. Studi dell’Avv. G.B. Marchesini, Roma, Tipografia Barbera, 1877, pp. 145-147. Anche in altri luoghi del suo libro l’autore discorre diffusamente della Colonia di Porto Real di cui segnala (p. 114) il costo sostenuto per l’acquisto dal governo (426.000 franchi), la natura di colonia pilota o modello e le coordinate geografiche (“È posta nel municipio di Rezende, a mezza distanza fra la città e... Barra Mansa. Il fiume Parayba la traversa...”). Marchesini rimarca “il grande vantaggio di questa colonia” consistente nel fatto di essere stata fondata nelle vicinanze della linea ferrata Dom Pedro II, la principale del Brasile, distando dalla sua stazione di Divisa appena quattro chilometri e mezzo. Nell’area superiore di poco ai 19.000 ettari, in larga parte incolti all’atto della fondazione nei primi mesi del 1874, erano stati inizialmente misurati e circoscritti 114 lotti da 10 ettari ciascuno. Seguivano ulteriori notizie sull’arrivo dei coloni della spedizione Malavasi e sul fatto che verso la fine del 1875 “attesa la recente fondazione della colonia molti edifici [erano] ancora provvisori. Non mancano però – si aggiungeva – le scuole una delle quali è tenuta da un maestro italiano...”.
21. F. Cenni, Italianos no Brasil. “Andiamo in ‘Merica’...”, São Paulo, Livraria Martins Editora, [1959], pp. 135-136, (l’altro brano a fronte nel testo viene naturalmente da A. Cusano, Italia d’oltremare, cit., pp. 9-11).
22. G.B. Marchesini, Il Brasile e le sue colonie, cit., pp. 114-115. “La colonia – diceva il primo “relatorio” – ha perduto cinque adulti, di cui una vecchia di 83 anni di nome Landini, il francese

Altoi, affogato; l’italiano Vicentini morto di scorbuto a Rio de Janeiro; l’italiano Benetti per un palo cadutogli sulla testa ed un altro italiano per niteronefrite. Non vi è che una sola morte che si possa attribuire ad infermità contratta nella colonia. Degli italiani non è morto ancora alcun bambino; dei francesi ne morirono pochi. Gli italiani arrivano qui affetti per lo più da scorbuto, ma si sono risanati...”. La seconda relazione verteva sulle sovvenzioni alimentari e sul rapido miglioramento delle condizioni anche economiche dei nostri emigranti i quali, assicurava il Marchesini, già pochi mesi dopo il loro arrivo (e sottraendoli evidentemente alla quota dei 500 reis giornalieri il cui pagamento gli era stata prorogato), “cominciavano a mandare un po’ di denaro alle case loro”. Sempre Marchesini (op. cit., pp. 156-157) ragguagliava a tale riguardo: “Nell’elenco che ho potuto esaminare sono nove i mittenti, di cui cinque italiani e quattro francesi. Le somme certo non sono ragguardevoli, ma se non altro dinotano chiaramente che si fu ben tosto in grado di fare qualche economia, e di ricordarsi dei parenti lasciati in patria. Il denaro che mandano i coloni è fatto recapitare a spese del Governo brasiliano, mediante i suoi agenti consolari...”.
23. Di mano di Italo Cavazza, intimo di Secchi e figura di spicco del gruppo concordiese (era figlio del sindaco in carica a Concordia nel 1874), è il breve racconto in due puntate che il foglio carioca “L’Italia - Continuazione al Cosmopolita” pubblica nel maggio del 1886 col titolo non proprio originale de I drammi delle colonie italiane del Brasile (il sottotitolo, però, quasi a voler anticipare certe telenovelas di là da venire come il recente Terra nostra, suona più opportunamente L’adultera). Vi si narra, ambientata appunto a Porto Real sul finire degli anni Settanta, la dolorosa istoria d’una giovinetta italiana, Maria figlia di coloni e sposa al conterraneo Antonio, della quale s’innamora perdutamente un ricco e sfaccendato rampollo di fazendeiros locali, Leandro. Carpitane senza sforzo la buona fede e, non ultimi, i favori carnali, questi troverà la morte accoltellato dal consorte padano tradito e, quantunque non meridionale, ma pur sempre latino, del tutto accecato dalla gelosia (sull’episodio letterario cfr. anche la tesi di Danusia Torres dos Santos, A presença literària italiana no Rio de Janeiro, Universidade Federal de Rio de Janeiro UFRJ, Faculdade de Letras, a.a. 1999).
24. La sosta della corvetta italiana si protrasse a Rio dal 7 ottobre al 4 dicembre 1876 e il medico di cui parla il Secchi nelle sue memorie sarà senz’altro uno dei due in servizio a bordo (ossia o il dott. Francesco Giaccari o il dott. Giovanni Colella), cfr. Ufficio Storico della Marina, Storia delle Campagne Oceaniche della R. Marina, volume I, a cura del Contrammiraglio F. Leva, Roma (Ristampa anastatica), 1992, pp. 244-245.
25. Cfr. Y-M. Bercé, Il re nascosto. Miti politici popolari nell’Europa moderna, Torino, Einaudi, 1996, pp. 389-399 dove fra gli altri si trovano esempi come questi (pp. 390-391) del tutto simili a quelli forniti dal Secchi anche se più antichi di alcuni di secoli: “Le relazioni sul viaggio del giovane Carlo IX attraverso il regno nel 1564 e nel 1565, riferiscono le feste, le lacrime di gioia e le acclamazioni... Nella Linguadoca dove non si era abituati alla presenza della corte, le folle si estasiavano al suo passaggio. Un’anzianissima donna di Leucate, inginocchiata davanti al re, esclamava nella sua parlata occitana: “Oh quanto sono felice di vedere oggi ciò che non avrei mai sperato... Vi prego, baciatemi, perché non è possibile che mi rivediate mai più”. Cento anni dopo, quando Luigi XIV era di passaggio al ritorno del suo matrimonio a Saint Jean-de-Luz, un cittadino di un villaggio della Chalosse raccontava nel diario di casa la sua gita a Tartas per assistere al passaggio del re: “Ho avuto l’onore di vedere con i miei occhi il re e la regina sua sposa. Non ho più alcun desiderio, se non quello di vedere in cielo il re dei re”.
26. Cfr. E. Franzina, Merica! Merica!, ed. cit. del 2000, pp. 164-166.





Consulta Emigrazione


Numero 9 – Nuova serie dei “QUADERNI”
Sono necessarie poche parole di chiarimento. L’Istituto di cultura Italo-Brasiliano è sorto nel novembre del 1945, quando ancora non si erano ristabilite le relazioni diplomatiche tra l’Italia ed il Brasile nell’immediato dopoguerra.
Nel marzo 1960, con il direttore prof. Edoardo Bizzarri (1910-1975), l’ICIB riusciva ad acquistare una sua sede con la Casa di dante di rua Frei Caneca 1071, dove a partire dal 1961 ospitava in Comodato l’Istituto Italiano di Cultura del Ministero degli Esteri. La situazione veniva ulteriormente ratifcata nel novembre 1971. Questa coabitazione, con la comunità d’intenti, ha finito col creare l’equivoco che le due istituzioni fossero in sostanza la stessa cosa.
Sottolineiamo invece che si tratta di due enti assolutamente separati, autonomi ed indipendenti, sebbene sotto lo stesso tetto. Nel complesso delle sue attività culturali, dal 1961 l’ICIB ha iniziato la pubblicazione in una serie di fascicoli culturali, prima dal nome di “Cadernos”e quindi di “Quaderni”,che con alterna fortuna e mutevole puntualità ha raggiunto i giorni attuali. È così che dopo un ottavo fascicolo nel 1999 di una nuova serie, nel mese di maggio di questo 2002 è stato editato il nono fascicolo. Pur con l’ICIB sempre titolare della testata, questi ha voluto accogliere in co-produzione anche l’Istituto Italiano di Cultura. Già in visione nella Sede di rua frei caneca, il nuovo n. 9 sarà ufficialmente presentato alla Comunità con cerimonia del 6 agosto nel Circolo Italiano, con la presenza della Regione Emilia Romagna. Crediamo opportuno presentarne una rapida sintesi.

Il fascicolo è sdoppiato in due parti: una con temi di storia, letteratura,società,politica ed un’altra più generica di Cronache.
Nella prima domina l’argomento “Etruschi”con due lavori,che giustifica e spiega la riproduzione in copertina di un raro gioiello in oro etrusco del VII secolo a.C., un ciondolo (“bulla”) con le figure di due demoni infernali e la presenza del classico e insuperato “granulato”etrusco. Amedeo Bobbio descrive nel suo “Desco etrusco”l’alimentazione con riferiomenti attuali circa la lingua che pare indirizzata su di una derivazione dal greco arcaico.
La vita etrusca era a prevalenza agricola-pastorale per cui vengono riferiti i passi dell’insediamento dei cereali fino, con il V secolo a.C., alla coltivazione del grano vero e proprio. In merito viene citata la possibilità di “maccheroni etruschi”, quindi con il VII secolo a.C. la produzione di vino ed olio (eleiva0 e poco dopo la coltivazione degli ortaggi, legumi, frutti. Quanto alle carni, la preferenza era per i suini, la cacciagione e la pesca, nel linguaggio sempre dell’archeologia, nostra maggiore informatrice. L’autore si sofferma infine sui banchetti, arricchiti da un vasellame copioso e variato, con la trasmissione dell’immagine di un popolo romantico, allegro e fantasioso, pur nelle tante incognite che ancora lo caratterizzano.

Un secondo lavoro a sfondo etrusco del fiorentino-salentino Giuseppe Foscarini inquadra e traduce l’ultimo e recente reperto della “Tabula Cortonensis”, otto frammenti in bronzo spezzettati, che sarebbero la memoria funebre di un superstite per i defunti di un terremoto, che verso la fine del IV secolo a.C. avrebbe infierito sulla città di Cortona. All’argomento il Foscarini ha dedicato un volume di 238 pagine edito dalla “Loggia dei Lanzi”di Firenze.
Segue nel “Quaderni” un saggio di Renzo Ciuffa, che analizza l’interessante figura di Benedetto Cotrugli, mercante-scrittore del ‘400. Un quarto lavoro di Carmelo Distante tratta “L’avanguardia nella letteratura italiana del Novecento”, mentre Guido Clemente propone un entusiasmante interrogativo: “È possibile un Nuovo Impero Romano?”
Nella pubblicistica di questi anni il tema dell’Impero Romano è tornato di prepotente attualità e Clemente ne conclude che i processi storici non si comprendono né si governano semplificandoli. Osvaldo Humberto Leonardi Ceschin affronta a sua volta il concetto di “A Cidadania em alguns Movimentos”chiarendone la transizione e la traettoria fino a concludere per una imposizione storica dei valori e diritti legati al termine, che nessuno Stato democratico può ignorare. La seconda parte, ben più ristretta, porta il titolo di “Cronache” ed inizia con Yvonne Capuano, che riferisce sulla “Viagem ao Sul do Brasil com Annita Garibaldi Jallet, bineta dos Herois Republicanos,cui segue Jussara da silveira Derenji, che analizza la figura singolare del “Conde Ermanno Sradelli umpesquizador italiano na Amazônia”.
Si ripropone quindi Amedeo Bobbio con “Curiosità su cacao e Cioccolato”, di grande attualità in questo inizio di anno, e segue José de Oliveira Messina commemorando “Os noventa anos do Colégio Dante Alighieri-Como érmos e como somos”.
Conclude il fascicolo Socrate Mattoli riferendo le “Attività svolte dalla FECIBESP”,che promuove l’insegnamento della lingua e la diffusione della cultura italiana nella Circoscrizione del “Consolato Generale d’Italia”.
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Verso l'Europa

La storia della popolazione trentina è stata caratterizzata da una grande migrazione di manodopera maschile e femminile iniziata nell'Ottocento. La meta preferita per operai, manovali, sterratori, domestiche e donne di fatica fu innanzitutto l'Europa: basti pensare che ancor oggi la popolazione del Voralberg, in Austria, è al 25 % di origine trentina.
Anche l'emigrazione verso la Svizzera fu molto consistente: pur essendo considerata temporanea, con il trascorrere del tempo divenne permanente e coinvolse, fino ai recenti anni Settanta, anche molte giovani donne, oltre ai maschi. Sole, spesso minorenni, le ragazze trentine se ne andavano oltre frontiera partendo da Trento in treno: portavano con sé documenti di buona salute, una valigetta di cartone con biancheria personale e qualche foto dei familiari; indossavano un cappotto rivoltato, che era spesso un pastrano militare recuperato dalla guerra. Una volta in Svizzera, venivano occupate come domestiche, operaie nelle fabbriche tessili ed elettromeccaniche, come inservienti negli ospedali o braccianti temporanee in agricoltura.
In Germania l'emigrazione trentina si diffuse soprattutto nel Baden-Wuttemberg, nel Nord Reno-Westfalia e in Baviera.
Verso l'Inghilterra partirono soprattutto gli arrotini, originari della Val Rendena, che offrivano i loro servigi (arrotare coltelli e posate) ai ristoranti, alla macellerie e agli hotel di Londra.
Fra le due guerre i trentini emigrarono soprattutto in Francia, dove vennero assunti come operai nei lavori forestali, nelle miniere di ferro e nell'edilizia.
Caratteristiche sono le antiche comunità trentine che si trovano tuttora in Romania e Bosnia.
Nel 1851 un gruppo di famiglie originarie della Val di Fiemme raggiunse la Romania per lavorare nei boschi e nelle costruzioni., insediandosi nelle zone di Brasov e Miercurea Ciuc.
Dalla Valsugana e da Aldeno partirono attorno al 1882 altre famiglie trentine, concentrandosi soprattutto nel nord della Bosnia, nella cittadina di Stivor . Altri partirono dalla valle del Primiero per fermarsi a Tuzla e a Mahovljani.
 

Gruppo di trentini emigrati

Circolo Trentino di Bienne
 
Oltre l'oceano

Le mete preferite per chi partiva verso altri Continenti furono soprattutto Brasile e Argentina, in seguito Stati Uniti e Canada.
Dalla Valsugana, dal Tesino, dalla Val d'Adige, dal Primiero e dalla Vallagarina partirono alla fine dell'Ottocento migliaia di famiglie intere verso il Brasile, con il miraggio della terra in proprietà. L'afflusso continuò anche tra le due guerre e, in misura minore, dopo la seconda guerra mondiale. La maggior parte si fermò negli stati di Santa Catarina e Rio Grande do Sul, dove diede vita a comunità prospere e laboriose, su base essenzialmente agricola.
Anche l'emigrazione verso l'Argentina (anni '30 e '40) fu soprattutto di contadini affamati di terra, che si stabilirono numerosi soprattutto nella provincia di Rio Negro; tra loro anche operai. Le alternanze di natura economica e politica che hanno colpito l'Argentina, hanno coinvolto in vicende spesso tragiche anche molti trentini: per aiutare le famiglie in stato di necessità la Provincia Autonoma di Trento ha costituito un Fondo di Solidarietà, che oltre a offrire aiuti economici, sviluppa e incentiva aziende e cooperative locali. La stessa sorte per i trentini emigrati in Uruguay.
Particolarmente tragica e fallimentare si dimostrò l'emigrazione recente verso il Cile (1951-2) realizzatasi nelle zone di La Serena-Coquimbo: un concreto aiuto da parte della Provincia servì a favorire il rimpatrio di quanti vollero tornare a casa, mentre chi è rimasto ha potuto sviluppare attività agricole e commerciali di un certo rilievo nella zona di La Serena.
Verso gli Stati Uniti partirono a cavallo dei due secoli e tra le due guerre soprattutto minatori: si stabilirono nelle zone carbonifere della Pennsylvania, presso le miniere di ferro del Michigan e del Minnesota, nelle aree minerarie di rame, argento e oro del Colorado, nelle miniere di carbone del Wyoming.
Gli uomini lasciavano le Valli di Non, di Cembra, di Piné ancora giovani; se ne andavano dal Vezzanese, dal Bleggio e dalla Valle di Ledro soli, richiamandosi l'un l'altro attraverso catene migratorie formatesi in ogni villaggio e in ogni vallata trentina.
Una volta sistemati richiamavano le donne: mogli, sorelle, fidanzate li raggiungevano all'estero, stabilendosi in luoghi impervi e desolati, privi di qualsiasi comfort, dove far vivere e crescere la famiglia.
 
Donne di carattere

Non furono molte quelle che si ribellarono, ma qualcuna ci riuscì. Maria Valentini, partì da Tuenno all'inizio del secolo per approdare a Cheyenne, Wyoming: un paesaggio grigio di pietraie e vento, senza alberi né case. "A mezz'ora di cavallo dal villaggio e a pochi passi dalle riserve indiane, il nonno aveva fatto costruire una casetta di legno. Fuori della porta strisciavano i serpenti e di notte ululavano le iene - è la nipote Mary Moresco a ricordare. -Quando nacque il suo primo figlio, la nonna si ribellò: 'Non posso avere un po' di sole sulla faccia di mio figlio, gridava, non posso aprire la porta perché entrano i serpenti, questa non è vita: o ritorniamo tutti insieme a casa o me ne vado con il figlio, sola. Qui non è l'America, è l'inferno!' La nonna riuscì a ritornare in Trentino, e il nonno fu costretto a seguirla".
 
Alcuni dati

La consistenza dei flussi migratori dal Trentino verso l'estero ha raggiunto, in oltre un secolo, il numero dei residenti attuali nella provincia: 400.000 persone.

Di essi, il 20% è approdato negli Stati Uniti (80.000 persone),
il 2% in Canada (8.000 persone),
il 40% in Brasile (160.000 persone),
il 21,25% in Argentina (85.000 persone),
l'1,13 % in Cile e Uruguay 4.500 perone).

Verso l'Australia se n'è andato l'1,25% della popolazione, pari a 5000 persone.

In Europa, il flusso più consistente si è stabilito in Austria: il 5%, (20.000 persone);
il 2,5% in Francia (10.000 persone);
il 2% in Germania (8.000 persone);
il 2% in Svizzera (8.000 persone);
l'1% nel Benelux (4.000 persone);
lo 0,75% in Gran Bretagna (3.000 persone).

Altri Paesi sono stati raggiunti dall' 1,13% della popolazione(4.500 persone).
 
Le associazioni

Le associazioni che collegano i trentini che risiedono all'estero sono essenzialmente due: l'UFTE, unione delle famiglie trentine all'estero e la "Trentini nel mondo". Quest'ultima è molto consistente e raccoglie gli oltre 180 Circoli trentini sparsi nel mondo.
Organo di collegamento e informazione, il mensile "Trentini nel mondo" aderente alla Fusie, federazione unitaria della stampa italiana all'estero.

Attuale presidente dell'associazione è Ferruccio Pisoni; direttore Bruno Zandonai.
Indirizzo: "Associazione Trentini nel mondo", passaggio Peterlongo n.8-3810 Trento.
E-mail: info@trentininelmondo.it
>>>Continua nel prossimo numero
 
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